Cultura e Spettacoli

Il selvaggio Artaud a caccia di Atlantide tra le montagne del Messico incantato

L'attore e drammaturgo viaggiò nel 1936 sulle montagne sudamericane. Cercava i discendenti della città del mito ma scoprì la funzione rituale del teatro

Il selvaggio Artaud a caccia di Atlantide tra le montagne del Messico incantato

Era pericoloso. «Aveva una personalità tormentata e tormentava gli altri con richieste assillanti. Metteva in discussione i principi di chi lo frequentava: alcuni scappavano pur di non incontrarlo», mi dice Marcello Gallucci. Il volto pareva un fuoco. Anche Picasso lo evitava: Antonin Artaud non stava a cuccia, agli ordini del pittore-matador. Era bestia indomabile e una fatale innocenza trasudava dal suo corpo. «Non sono un debuttante alla ricerca di illustrazioni di un grande pittore per lanciare i suoi primi scritti. Ho già cagato e sudato la mia vita in scritti che valgono poco più dell'agonia da cui provengono Ma bastano a se stessi e non hanno bisogno di un padrino», gli aveva scritto, nel gennaio del 1947. Artaud si avviava a morire, Picasso avrebbe dovuto illustrare con alcune acqueforti Artaud le Mômo, testo-testamento pubblicato da Pierre Bordas in alcune copie d'arte (le Lettere a Pierre Bordas di Artaud sono edite, a cura di Domenico Brancale, con un disegno di Nicola Samorì, da Prova d'Artista, 2021). In quel testo scriteriato, dalla grammatica scorticata Artaud mette in pratica quanto aveva scoperto in Messico, durante l'estate del 1936, passata Al paese dei Tarahumara (così la raccolta di testi editi da Adelphi). Parola magica, parola taumaturgica, parola-gesto. «Non sono andato al Messico per fare un viaggio d'iniziazione o di piacere da raccontare poi in un libro che si può leggere accanto al fuoco; ci sono andato per ritrovare una razza che potesse seguirmi nelle mie idee. Se sono poeta o attore non lo sono per scrivere o declamare poesie, ma per viverle», scrive, da Rodez, in gabbia, nel 1945. La gita messicana è il punto di non ritorno, l'ordalia, l'eremo nell'abisso di Artaud.

Il viaggio in Messico ricostruito minuziosamente da Marcello Gallucci, con stuolo di documenti, in Antonin Artaud, Messaggi rivoluzionari, Jaca Book, pagg. 304, euro 20 comincia da Le Havre, l'11 gennaio del 1936. Il mercantile S. Matthieu fa tappa a New Orleans, si ferma a L'Avana; il 4 febbraio Artaud è a Veracruz, tre giorni dopo sbarca a Città del Messico. Il ciclo di conferenze tenuto all'Università della capitale dal 26 febbraio è un manifesto antieuropeo («L'Europa è in uno stato di civilizzazione avanzata: voglio dire che è molto malata»), spiritato e spiritista («Nel disastro spirituale attuale, noi accusiamo un'immensa ignoranza; e c'è una corrente molto forte perché si cauterizzi questa ignoranza»), in cui il poeta proclama «la guerra per avere la pace». Antonin Artaud cita Giuliano l'Apostata, Lao-Tze, Platone, e invoca «la croce del Messico, la rinascita della vita». Artaud non è andato oltreoceano, come Gauguin o Stevenson, per capitolare in un sogno esotico, né per capitalizzare il proprio talento letterario, come D.H. Lawrence e Malcolm Lowry. Artaud è in Messico per fare la rivoluzione, per carpire il segreto del mondo.

L'attività pubblicistica che inaugura laggiù è esasperata: su El Nacional, il 5 luglio del '36, scrive che «Sono venuto in Messico alla ricerca di uomini politici, non di artisti... Ci fu un tempo in cui l'artista era un saggio, cioè allo stesso tempo un uomo colto, un taumaturgo, mago, terapeuta e perfino ginnasiarca... L'artista riuniva in sé tutte le facoltà e tutte le scienze. Poi venne l'epoca della specializzazione, quindi della decadenza». Su Grafos, importante rivista de L'Avana vi collaborava, tra gli altri, José Lezama Lima scrive un articolo intorno alla corrida «come teatro» dacché «il dramma è nell'incitamento degli istinti». L'enfasi di Artaud faceva paura, la sua purezza era dirompente. Luis Cardoza y Aragón, diplomatico, poeta, intellettuale del Guatemala in esilio in Messico, introdusse Artaud nella cupola colta latinoamericana: «Lo ricordo incandescente, fatto a pezzi da se stesso, strangolato, fertile di guizzi e di crolli, errabondo, incapace di coerenza esteriore, anarchico a forza di sincerità». Francesizzati, effimeri, ignifughi al sogno, gli scrittori messicani, in genere, ignorarono Artaud; i giornali locali non ne compresero il genio («Nella sua conferenza ha avuto momenti brillanti...», attacca il soporifero recensore di El Universal). Secondo diversi testimoni, la presenza di Artaud a Città del Messico «era diventata molesta»: a metà agosto, finalmente, il poeta può muoversi verso i Tarahumara, nella Sierra del Chihuahua.

Aveva letto dei Tarahumara in un poema di Alfonso Reyes, tradotto nel 1929 da Valery Larbaud, che esaltava «le erbe dei Tarahumara» capaci «di prodigi e di presagi», cioè di introdurre l'adepto a una «vasta ebbrezza metafisica». Soprattutto, Artaud credeva che i Tarahumara fossero l'ultimo lembo degli abitanti di Atlantide, che, come aveva scritto l'occultista Antoine Fabre d'Olivet nella sua Histoire philosophique du genre humain (1824), «languono oscuramente sulle cime delle montagne più alte d'America». Tra i Tarahumara, Artaud scoprì il teatro come rito, il verbo come apparato liturgico che scuote e capovolge ogni legge. «I Tarahumara sono il Monte Carmelo di Artaud, il passaggio mistico. Un rito. L'uomo che sbarca a Le Havre, di ritorno dal Messico, è una persona nuova» (Gallucci). Dai Tarahumara il poeta torna con una sacca piena di peyote; secondo la testimonianza di Alejo Carpentier, in Francia portò anche «una piccola spada di Toledo, una specie di talismano cubano che gli aveva donato uno stregone». Con quella spada, specie di Artù dell'arte, Artaud va in Irlanda, alle Aran, cercando affinità tra la civiltà druidica e gli indios.

Rodez è dietro l'angolo: l'Occidente imprigiona il suo sciamano, lo piglia per pazzo.

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