Tra sesso e morte Ecco il "Cosmo" secondo Gombrowicz

Tra sesso e morte Ecco il "Cosmo" secondo Gombrowicz

Tornato in Europa, nel 1963, risiedendo in Francia, dopo ventiquattro anni di esilio volontario in Argentina (era partito per un viaggio di due settimane, poi era scoppiata la guerra e fu costretto a rimanere; ma, quando la guerra finì, decise di restare), Witold Gombrowicz, che aveva scritto ormai tutti i suoi libri, rispondendo alle domande dell'amico Dominique de Roux (ora contenute in Testamento), dice di aver capito che la sua vita era finita. Nel '65 scrive nel suo Diario: «Sto forse già entrando nella fase finale, quella in cui ancora si vive, ma ormai solo di cose morte?». Ma quel suo umore nero suona atipico per chi conosce Gombrowicz, lo scrittore che più di altri aveva disprezzato tutte le pose (la posa da poeta, la posa da scrittore), che osservava la banalità e l'infantilismo del mondo scrivendo romanzi che, portando all'estremo i propositi di Flaubert, erano capaci di raccontare nulla. Ma è proprio in Francia che completa il suo ultimo capolavoro, Cosmo (traduzione di Vera Verdiani e cura di Francesco M. Cataluccio, pagg. 236, euro 24), di nuovo in libreria per Il Saggiatore, che ha in programma di ristampare tutti i romanzi del maggiore scrittore polacco del Novecento.

Presentandosi come un giallo generato da nessun omicidio ma dal caso, o dal caos, Cosmo è il più mentale e il più metafisico dei suoi romanzi. Nel '62, sul Diario, scriveva che era «un romanzo sulla formazione della realtà». E la realtà era per Gombrowicz un paradosso quello di trovare un ordine, di dare una forma al caos per mezzo di una dialettica tra un fenomeno e la nostra percezione dello stesso, tra ciò che accade e ciò che il nostro giudizio fa accadere artificiosamente. Il primo fenomeno che incontrano Witold e Fuks (compagno di viaggio del narratore), mentre si dirigono verso la pensione nella quale risiederanno, è l'impiccagione di un passero. Un primo segno che ne metterà in evidenza altri: la crepa sul muro a forma di freccia, una freccia che indica un bastoncino appeso a un filo, che a sua volta indica la bocca distorta di Katasia, la quale evidenzia, per contrasto, le belle labbra di Lena. Poi l'impiccagione del gatto, causata da Witold stesso, e infine un'impiccagione umana. Qui si condensano tutti i fenomeni nel momento in cui Witold ficcherà nella bocca del suicida un dito. Quel gesto estremo è per Gombrowicz una manifestazione di vita. Ma è un atto sessuale simbolico poiché connette vita e morte. Se attraverso il dito, di simbologia fallica, così come si rifaceva alla stessa simbologia il primo fenomeno (quindi il primo giudizio-indizio di realtà), Witold può penetrare Lena (la donna che desidera), è vero pure che ciò che si penetra è qualcosa di morto. Per conquistare la vita è insomma costretto ad attraversare la morte. Quel passero morto era il simbolo del membro di Witold, il dito che poi entrerà nella bocca dell'impiccato. Quei fenomeni ad altro non servivano, allora, se non a far comprendere a Witold la propria stessa morte, che cerca di esprimere con l'unico atto davvero fecondo: il sesso.

Del resto, quello che Gombrowicz rimprovera alla filosofia è di aver estromesso dal ragionamento sulla realtà il corpo e l'eros.

E se è vero, come dimostra in Cosmo, che la sessualità è connessa alla morte, il suo reale ammonimento al pensiero filosofico è di aver costruito un sistema logico per rimuovere la paura della propria stessa morte, quella che, per tutta la vita, egli stesso aveva cercato di esorcizzare, o deridere, opponendogli l'infantilismo, la banalità umana, la necessità e l'ossessione di dare una forma al caos, appunto.

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