Lui, da laggiù, ne parla con il suo entusiasmo rarefatto: «The Voice è realmente un modo di aiutare i giovani cantanti». Riccardo Cocciante è a Tokyo dove stasera il suo Notre Dame de Paris debutta all'Orb Theatre. «È una operazione molto complessa e ci stiamo lavorando a ritmo serrato». Al ritorno qui in Italia sarà più o meno il tempo di un altro debutto: quello di The Voice of Italy il 7 marzo su Raidue, appunto, talent show che all'estero, States e Francia specialmente, si merita ascolti clamorosi. Cocciante è uno dei coach, di fianco a Raffaella Carrà, Piero Pelù e Noemi. Presenterà Fabio Troiano, attore debuttante anche lui nel ruolo di conduttore, e il cast comprende la sorprendente (vedrete) Carolina Di Domenico che interagirà con il pubblico del web, oltre ai consulenti del coach, che sono un bel pezzo di canzone italiana: Gianni Morandi per Raffaella Carrà, Mario Biondi per Noemi, i Marlene Kuntz per Pelù e Kekko Silvestre dei Modà per Cocciante. «Lui è un cantante molto interessante, credo abbia tutte le qualità per fare una lunga carriera». Eggià, la carriera. È l'obiettivo di un talent show: lanciare cantanti che resistano nel tempo. In questo caso la selezione parte realmente al buio: nel senso che nella cosiddetta Fase Blind gli aspiranti concorrenti cantano di spalle, non si fanno vedere, lasciano di sé soltanto la voce. «Perciò The Voice è diverso dagli altri: il look, l'aspetto fisico, la storia singola di ciascun cantante vengono dopo. Al centro c'è il talento e la capacità di trasmettere emozioni». Insomma, è una piccola svolta: «Forse in passato qualche volta la costruzione del personaggio è stata esagerata. Io invece voglio artisti che sappiano pungere magari anche graffiare il pubblico con la propria voce». In fondo Cocciante agli esordi era così: «Facevo scelte anti moda e mi ritrovavo dietro a cantanti modaioli. Però dopo due o tre anni loro non c'erano più mentre io sono ancora qui dopo quaranta».
Questione di feeling con il pubblico, oltre che di carattere.
Anche in The Voice ci sarà una fase nella quale mostrare simbolicamente i muscoli: le gare a due. I membi di ciascuna squadra canteranno la stessa canzone e alla fine il coach deciderà chi arriverà in finale, in quelle sei puntate di Live Show trasmesse in diretta. Percorso complesso, vero? «Ma è importante per capire quali siano davvero i carati di ciascun cantante» spiega Cocciante. Quando debuttò lui, di talent show non c'era neppure l'ombra: e tutto si giocava con le case discografiche, la gavetta, i progetti. Musicalmente, un'era geologica fa. Scusi Cocciante, se ci fossero stati lei avrebbe mai tentato di partecipare a un talent show? «Io? Ero troppo aggressivo e diverso. Magari non mi avrebbero mai scelto anche solo per l'aspetto». In ogni caso, la prima volta che lui andò in televisione era già arrivato al primo posto della classifica. «Strana storia quella: Bella senz'anima era stata praticamente censurata in radio e i miei discografici dovettero insistere molto per farla trasmettere. Ma poi il pubblico iniziò a cercarla e ne decise il successo». Il suo primo 45 giri è del 1968 ma quasi nessuno se lo ricorda. «Noi potevamo sbagliare anche due o tre dischi ma alla fine trovare la strada giusta. Oggi c'è una sola possibilità e poi sei perduto».
E questo è il grande segreto dei talent show: al momento sono l'opportunità migliore specialmente per chi ha inclinazioni pop ma non sa dove sbattere la testa. Le grandi major discografiche hanno lasciato evaporare gli investimenti, traccheggiano con progetti a brevissimo termine e insomma non sono più in grado di garantire lo start up di un debuttante. «Perciò mi prometto di aiutare questi ragazzi. E mi piace farlo perché hanno una forza incredibile, sono proprio capaci di dare la scossa. Ad esempio, con quelli della mia squadra abbiamo fatto una breve sessione di lavoro e mi sono accorto di quanto siano recettivi. Ovviamente sono inesperti: ma hanno una tremenda voglia di crescere». Li vedremo. Ma solo dopo.
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