Smutniak rosso fuoco apre una Mostra dai colori un po' spenti

Venezia inizia senza eccessi. Cerimonia d'inaugurazione breve e austera (coi soliti manifesti). Barbera non sale sul palco

Venezia - Corre l'anno della 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica in tempo di crisi. Ma al Lido ci sono comunque gli effetti speciali. Una neve artificiale copre i primi manifestanti con una pattuglia di lavoratori di Cinecittà, circa 70, a cui si contrapponeva il doppio di poliziotti, a inveire contro il piano di sviluppo e riorganizzazione aziendale dell'area capitolina voluto dal presidente degli Studios Luigi Abete. Con slogan semplici e chiari: «Non si mangia con la cultura ma Abete e soci s'ingoiano Cinecittà». Che i manifestanti avrebbero voluto ripetere durante la cerimonia di apertura di ieri sera leggendo un comunicato. Ma per ora la Mostra ha fatto orecchie da mercante.
Intanto, a poca distanza, nel rinnovato palazzo del cinema - per carità niente di epocale, qualche tramezzo in meno nel foyer e un po' di rosso in più - si apriva la Mostra in una sala grande che, crisi o non crisi, registra sempre il tutto esaurito, tra vip o presunti tali. Con l'immancabile presenza di Marina Ripa di Meana e del suo cappellino con corna da diavolessa, oppure di Valeria Marini in abito bianco scosciato. E poi Violante Placido, Isabella Ferrari, Jo Squillo, Laetitia Casta (senza Stefano Accorsi a conferma delle voci che parlano di crisi), Naomi Watts, Kate Hudson... Ad accogliere tutti, sul tappeto rosso, il presidente della Biennale Paolo Baratta, il direttore della Mostra Alberto Barbera e il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni che hanno anche salutato il ministro dell'Ambiente Corrado Clini, quello dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi e, a sorpresa, il presidente della Corte Costituzionale Alfonso Quaranta.
Perfetta la conduzione della serata della madrina del festival, l'attrice polacca Kasia Smutniak la quale, bellissima in un lungo abito mozzafiato rosso fuoco, ha elencato i temi principali della Mostra di quest'anno e non c'è da stare allegri: «La crisi, la globalizzazione, il pregiudizio, il lavoro, l'eutanasia, l'amore». Un po' affaticato è apparso il presidente Baratta - reduce anche dall'inaugurazione della Biennale Architettura - che ha parlato delle iniziative rivolte al futuro come la nuova cittadella del cinema o quelle dedicate ai giovani cineasti come la Biennale College Cinema. Un festival rinnovato negli spazi - che però son sempre gli stessi - grazie a un lavoro da formichine. Un po' di bianco qua, qualche tenda là e nasce una nuova saletta di proiezione, il buco da non si sa quanti milioni di euro del palazzo del cinema mai costruito richiuso in fretta ma solo a metà.
Presentate le giurie con il presidente Michael Mann, la cerimonia è giunta al termine, prima della proiezione del film di apertura di Mira Nair, The Reluctant Fundamentalist, quando la Smutniak ha detto che era rimasta una sola sedia bianca vuota.

Era per il regista iraniano Jafar Panahi condannato a 6 anni di reclusione nel suo Paese per propaganda contro il regime. Del direttore Alberto Barbera neanche l'ombra. «Come a Cannes» si sono affrettati a dire dalla Biennale. A marcare, ancora una volta, la differenza con l'ex direttore superpresenzialista Marco Müller.

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