Enrico Pieranunzi, ovvero quando il piano jazz assume una caratura davvero internazionale. L'artista romano, che divise il palco con personaggi come Chet Baker e Charlie Haden, è uno dei più amati in America, dove è stato il primo jazzman italiano a suonare al mitico Village Vanguard (in trio con Marc Johnson e Paul Motian) di cui è uscito da poco il cd dal vivo, e ora va in tournée in Asia con Larry Grenadier e Jeff Ballard (sezione ritmica di Brad Mehldau) prima di presentare, il 26 settembre all'Auditorium di Roma, un concerto con l'Orchestra di Santa Cecilia in ricordo di Armando Trovajoli e un omaggio a Fellini.
Allora com'è andata al Village Vanguard?
«Un'emozione incredibile. Prima di me di europei c'erano stati solo Michel Petrucciani e Martial Solal. La proprietaria, la signora Gordon, è una graziosa novantenne che si occupa di jazz con competenza e amore, è ha chiesto a Paul Motian di conoscermi dopo aver ascoltato una mia esecuzione di Scarlatti. Così nel 2010 tenemmo sei concerti in trio, da cui è nato il disco. Il Village è una piccola cantina ma che atmosfera... Alle mie spalle c'era una foto di Motian con Bill Evans e Scott LaFaro. Incredibile».
Come mai Lei piace così tanto agli americani?
«Esiste un codice jazzistico che io suono per natura, senza averlo coltivato. Ho il senso dello swing, della pulsazione ritmica e loro lo sentono, rispondo con naturalezza a certi loto canoni di ortodossia dai tempi in cui suonavo con Art Farmer o Chet Baker. Poi tendo a suonare le mie composizioni. Insomma in me sentono l'europeità ma l'accettano e suono con loro alla pari».
Cosa ricorda di Chet Baker?
«Chet mi ha cambiato la vita. Iniziammo a suonare insieme nel '79, in totale quattro dischi e un sacco di concerti. All'epoca ero ispirato da pianisti neri come McCoy Tyner, con il suo suono essenziale, intenso e poetico, mi fece riscoprire Bill Evans. Abbiamo avuto un grande rapporto artistico. Ci saremo detti 15 parole in tutto, comunicavamo di pancia con la musica».
Come ha sviluppato le sue radici classiche e jazzistiche?
«Il mio amore per la classica e il jazz è cresciuto contemporaneamente. A 5 anni studiavo pianoforte classico ma mio padre era un chitarrista jazz e la sua musica mi attirò subito. Da piccolo amavo Charlie Parker e il suo modo di trasmettere energia e tenerezza. Mi sono diplomato al Conservatorio ma suonavo essenzialmente bebop. Qualche anno fa ho ripreso Scarlatti, Bach, Handel, ora che il crossover non turba più nessuno. Ai tempi Frederich Gulda faceva arrabbiare i fan della classica quando si dava al jazz e viceversa. Oggi c'è più libertà di espressione».
Ora va in Asia con due big come Larry Grenadier e Jeff Ballard.
«La mia fissa sono le sezioni ritmiche potenti, mi piace il pulsare selvaggio di basso e batteria come quello di Ron Carter e Tony Williams. Parafrasando Miles Davis potrei dire: Il mio ego ha bisogno di una buona sezione ritmica. Grenadier e Ballard sono un vero motore in azione. A Tokio registreremo il concerto, spero ne uscirà un cd».
Intanto porta in giro per l'Italia Fellinijazz.
«Nel decennale della scomparsa di Fellini incisi questo album con star come Charlie Haden e Chris Potter. Ora, nel ventennale, esce il disco in doppio vinile e in cd cui ho aggiunto alcuni brani di piano solo. Fellini era un gigante per fantasia e originalità, peccato oggi sia un po' dimenticata la nitidezza del suo lavoro».
E poi il 26 settembre c'è l'omaggio a Trovajoli.
«Un pianista jazz che ha insegnato a tutti. Negli anni '60 aspettavo Gran varietà per sentirlo suonare. Mi confidò aneddoti affascinanti, come quella volta che, nel '49, a Parigi, suono in jam session con Charlie Parker. Ora eseguo pagine del suo repertorio con l'Orchestra di Santa Cecilia diretta da Franco Petracchi, per cui Trovajoli scrisse un'opera per contrabbasso».
E la musica oggi?
«È un'industria e deve produrre cose commerciali. Sono anni che sento dire che il jazz sta per morire, eppure è sempre qui. Non snobbo la canzone, ma amo quella di Sting, Paul McCartney e Stevie Wonder».
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