Sotto la Capannina si gusta il "Sapore di mare" dell'83

Jerry Calà canta sul palco del mitico locale alle 2 di notte. Intorno a lui l'atmosfera è un mix fra Sessanta e Ottanta

Sotto la Capannina si gusta il "Sapore di mare" dell'83

In effetti non si deve neanche bussare: negli anni Ottanta si può rientrare ogni volta dalla porta principale. La Capannina di Forte dei Marmi, notte fonda. Sembra il set di Sapore di mare, stesse scene, stessi flirt abbozzati, stessa atmosfera di quel film che nel 1983 ha cristallizzato un'epoca dalla quale nessuno vuole più uscire perché, ammettiamolo, rimane la culla dei sogni adolescenziali di tutti a prescindere dall'anagrafe. La spensieratezza. Il benessere economico. I primi sogni erotici. Il pudore dei valori.

Allora come oggi, il protagonista è Jerry Calà. Nel film dei Vanzina era Luca, il fidanzatino di Marina, il gatto di un vicolo nel quale possono avvenire anche i miracoli. Oggi è la guida turistica di un'epoca. Arriva sul palco alle due di notte in camicia bianca e abbronzatura tropicale accompagnato da quattro musicisti belli tosti e si ritrova una platea multigenerazionale che in pochi minuti diventa protagonista del film che rinasce ogni volta. «Vengo qui una decina di volte all'anno ed è un rito che celebro da 21 anni» spiega lui dopo che, nel concerto, ha condotto tutti nella visita guidata degli anni Sessanta rivisti con la lente degli anni Ottanta. Le canzoni di Vianello (sono tutti abbronzatissimi), quelle di Battisti (per loro non è solo un'avventura), quelle di Gino Paoli (il sapore di sale è per forza sulla pelle) e tutte quelle che da allora hanno messo il timbro a una generazione. Il bello è che a cantarle non sono soltanto le carampane o le milf o i sedicenti gigolò che allora muovevano i primi passi. Ci sono i ragazzi che negli anni Sessanta manco c'erano e negli Ottanta forse erano solo nei sogni di due sposi. Tutti a cantare i testi a memoria come se li avessero vissuti davanti a un falò sulla spiaggia esattamente come i loro genitori o, ormai, anche i loro nonni.

«Battisti è ormai come la musica classica», dice Calà prima di fotografare la mancanza di miti di questi ragazzi: «I miei film continuano a essere protagonisti in prima serata tv, loro li vedono, ci si rivedono e quindi iniziano ad amarli». Per carità, qui non si sta parlando di vademecum filosofici né di manuali di cultura politica. Si parla di buon tempo, di vacanze, di radiografia sociale, di qualcosa che allora i critici cinematografici massacrarono senza pietà con il solito sterile snobismo ma che oggi sono molto più istruttivi di tanti film d'essai. «Allora non ci aspettavamo certo che ci amassero, ma già allora c'era l'esempio di Totò e della sua rivalutazione».

La Capannina nel 2017 è la conferma che un sipario non è ancora calato. Mentre canta Jerry Calà (a proposito: non sbaglia un ingresso nelle canzoni e non è così facile alle 3 di notte), intorno a lui inizia la rappresentazione. Sulla scala di fianco al palco un ragazzo sembra tale e quale Gianni, stessi occhialoni stesso mare, quello che poi finisce per un attimo tra le braccia di Adriana (Virna Lisi). In platea i ragazzini cantano in coro, poi si abbracciano e infine uno prova a baciare sulla bocca la sua fiamma ma lei sposta il volto e offre solo la guancia come Susan (Karina Huff) a Paolo (Angelo Cannavacciuolo). Non sono impostati, accade proprio così naturalmente. Nelle retrovie, giusto al lato destro del palco, c'è un signore alto con i capelli impomatati che sembra Cecco il fotografo (Ennio Drovandi), quello che conosce i segreti di tutti e, soprattutto, di tutte. Quello che allora sembrava un isolato paparazzo di provincia ma che oggi è lo specchio panoramico di una società: tutti scattano selfie, tutti ficcano il naso, tutti sanno (o credono di sapere) tutto di tutti gli altri.

Qui sembrano gli anni Sessanta e un po' gli anni Ottanta, quando si tornava a respirare dopo l'asfissia degli anni di piombo e delle ideologie impiombate. Dentro la Capannina di Franceschi, proprio a poche centinaia di metri dal ristorante Pesce Baracca dove l'altro giorno è stato avvistato a pranzo Christian De Sica (che nel film è il fratello di Jerry Calà), non va in scena un rito nostalgico ma qualcosa ogni volta inedito: gli anni Ottanta vissuti da chi allora non c'era. Ovvio, adesso la motocicletta non è più «10hp tutta cromata» e fuori dalla Capannina ci sono pregiati Suv in seconda fila. Dentro, il pubblico non arriva solo da Torino o da Napoli ma da tutta Europa e non sempre capiscono bene l'italiano. Ma la ritualità di cantare in coro è la stessa, il piacere di condividere i tavoli, o i brindisi, non cambia di molto e pure l'arredamento è praticamente uguale. Le luci. La mirrorball appesa al soffitto. I camerieri in giacca bianca.

Quando uscì nel 1983, Sapore di mare sembrava un film artigianale ma poi ha scompaginato le carte in tavola, non soltanto perché incassò dieci miliardi di lire al botteghino, alla faccia di tanti altri costosissimi blockbuster. È diventato la polaroid di un'epoca, la foto istantanea di una scenografia che allora quasi tutti avevano vissuto, che molti snobbavano ma che oggi tutti vorrebbero rivivere o vivere perché l'hanno visto in tv e si sono accorti che intorno a loro il copione è molto diverso, molto più asettico e tecnologico.

Perciò una serata alla Capannina con Jerry Calà sul palco e gli inconsapevoli replicanti di Sapore di mare in platea è un viaggio parallelo tra il presente e la nostalgia. I cocktail probabilmente costano il triplo di allora. E in fila per entrare ci sono ragazzi vestiti più come Guè Pequeno che come Edoardo Vianello. Ma poi, giusto il tempo di attraversare due salette e ritrovarsi davanti al piccolo palco con poche luci, sembra di nuovo lo stesso set e non soltanto perché qualcuno canta Vorrei la pelle nera, senza peraltro minimamente fare allusioni o prendere posizioni politiche mai così lontane come dalla Capannina.

Semplicemente, come dice Virna Lisi alla fine di Sapore di mare ricordando il passato: «Sai cos'è? È che ci batteva il cuore». Per chi allora non c'era, è un richiamo irresistibile. Per chi c'era è la conferma di aver vissuto qualcosa che oggi, tutt'al più, è solo il sogno di una notte di mezza estate.

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