C'era una Roma bellissima e disperata quand'è finita la seconda guerra mondiale. Un luogo magico e strano, dove i soldati americani, finito il mito del Duce, compravano sciarpe littorie come souvenir, intanto che le reliquie di Keats e Shelley venivano riportate nella Capitale, mentre, al tramonto, le belle ragazze si appendevano al braccio di qualche liberatore provvisto di biscotti e sigarette Lucky Strike. In quel magma ancora putrido e perciò vitalissimo, tra il Caffè Greco senza luce elettrica e la Rinascente vuota di merci, si aggirava un ragazzo magro e colto, pronto a saltare il pranzo suo malgrado, ma non le ore serali di letture magnifiche per quei suoi giorni di stenti: Fame di Knut Hamsun e Umiliati e offesi di Dostojevskji erano il suo pane. Quel giovane si chiamava Stefano Vanzina, nato nel 1917 e morto nel 1988: lo «Steno» dei giornali satirici, dei caffè letterari in sodalizio con Longanesi e Soldati, delle riviste e dei più celebri film con Totò. Uno che, superati i momenti bui, avrebbe scritto centocinquanta sceneggiature e diretto settantacinque pellicole di successo, lasciando ai figli Carlo ed Enrico il testimone di una certa frivola perizia nel descrivere costume e società italiani. Poiché, dopo anni di singolare dimenticanza, Vanzina senior è stato «promosso direttore generale dell'umorismo italiano, da impiegato di prima fascia della risata», per dirla con i figli che, come lui, se la ridono delle etichette, fa piacere leggere delle sue avventure intellettuali in quell'estate romana di fine guerra, riemersa nel bel libro Sotto le stelle del '44. Un diario futile, a cura di Tullio Kezich (Rubbettino editore, 189 pp., 10,20 euro).
Nel centenario della nascita di uno dei padri della commedia all'italiana, la Galleria Nazionale d'Arte Moderna ospiterà anche una mostra (Steno, l'arte di far ridere, 11 aprile-4 giugno) basata sul Diario futile, opera pop in cui Steno incollava ritagli di giornale, vignette e foto dei collaboratori.
Nella confusa atmosfera capitolina, dove stelle&strisce americane strappavano il cielo alla stella rossa bolscevica e infatti Zavattini e Moravia, Savinio e Soldati non sapevano bene a quale stendardo appigliarsi il ragazzo Vanzina annota tutto in un collage di strepitosa attualità. «L'Italia esita tra la scatoletta di biscotti americana e l'insalata russa», scrive. Roma gli appare «una città falsamente viva», soprattutto quando la pioggia «sottolinea la situazione di paralisi sotterranea che cova dentro ogni negozio e dentro ogni bar, con la saracinesca abbassata a metà». E Piazza Venezia, orba del balcone da cui si affacciava Mussolini, è fotografata mentre una banda di soldati scozzesi con gonnellino e cornamuse «volteggia piétinant sur place»... Quanto «spleen» per la Svizzera, che all'allampanato scrittore neanche trentenne ricorda Addio alle armi. Perché al cinema Steno ci va comunque: alla Quirinetta e alla Capranichetta, adesso chiuse. Un ritaglio di giornale lo tiene allegro: «Non sono io che rassomiglio a Hitler ha detto Charlot è lui il mio sosia!». Chissà cosa direbbe Savinio della Roma attuale, se all'epoca, fermo in Corso Umberto davanti ai Magazzini Standa, insieme a Steno, stupito «guardava i negri americani che passavano indolenti». A Roma «il primo Ferragosto alleato, dopo quello badogliano dello scorso anno, non ci si salva più dalle divise, dalla tela kaki». Per fortuna, si lavora con Blasetti e Soldati. Poi c'è da scrivere parole per una canzone di Nino Rota e da mettere in scena una rivista sul cavallo bianco di Mussolini, «con toni alla Lubitsch». Anche se sarebbe meglio pensare alle commedie di Aldo Fabrizi, roba come Volemose bene, che ha successo. Se Blasetti s'affanna «sull'importante problema del bisogno d'amore», dopo tanta tensione, Steno inventa la parola «amorismo», prima che «buonismo» ne fosse conio contemporaneo. E mentre i comunisti irrompono al Valle, perché «vogliono uno spettacolo di cui hanno già i manifesti», nel cuore di Steno pulsa una domanda: «Potrei veramente essere felice con un piccolo bastevole stipendio e con l'amore di una piccola commessa, come nei finali di certi film americani?».
Disincantato e dinamico, egli ha ben chiaro che la «rinascita» del cinema italiano
di cui parlano Camerini e Blasetti («Questa sarebbe la terza rinascita o la quarta?, sfotticchia»), non urge «per esigenze artistiche, quanto per esigenze di stomaco. Non l'Arte presiede questi volenterosi, ma il Pranzo».
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