"Ho fotografato tutto Ma niente è stato come l’11 settembre"

"Ho fotografato tutto Ma niente è stato come l’11 settembre"

«Non pensavo di fare il fotografo. Al college studiavo cinema, volevo diventare regista. Poi ho capito che era un lavoro di gruppo e mi sono iscritto a un corso di fotografia d'arte. Amavo le foto di Henri Cartier-Bresson, Dorothea Lange o André Kertész, ma più di tutto mi attirava l'idea di girovagare, osservare e scattare. E di lavorare da solo». Trentanove anni dopo l'inizio della sua carriera di fotografo giramondo Steve McCurry, classe 1950, spiega così - in questa intervista a il Giornale - la vocazione solitaria e vagabonda che nel 1977 lo induce ad abbandonare il piccolo giornale della Pennsylvania dove ha trovato lavoro per esplorare India e Pakistan. Steve non lo sa ancora, ma quello è il viaggio della sua vita. Un viaggio che nel 1979, a pochi mesi dall'invasione sovietica, lo porta ad attraversare illegalmente il confine afghano per ritrarre dei guerrieri poveri e male armati, ma fieri di combattere una guerra sconosciuta contro un governo colpevole di aver abbandonato l'islam per abbracciare il comunismo e allearsi a Mosca. Grazie a quello e a tanti altri viaggi in Afghanistan arriva nel 1984 l'incontro con lo sguardo magnetico di Sharbat Gula, il ritratto della giovane profuga pashtun che lo rende famoso. «Per me è un onore che migliaia di persone oggi riconoscano il volto di Sharbat. È una benedizione non solo averla incontrata, ma anche averla ritrovata quando, nel 2001, tornai a cercarla. Quando vidi per la prima volta quegli occhi incredibili capii immediatamente... era la foto che cercavo. Quel ritratto evoca tenacia, determinazione, orgoglio, volontà di sopravvivenza. Esattamente quello che cerco fotografando guerre, civiltà in via d'estinzione o catturando le bellezze del mondo» spiega Steve McCurry alla vigilia del viaggio in Italia per la presentazione di Steve McCurry. Una vita per immagini (Mondadori Electa), il libro in cui regala una collezione di scatti, anche privati, senza precedenti. E in cui permette alla sorella maggiore Bonnie, da sempre custode discreta del suo lavoro, di mettere a nudo i suoi ricordi e i suoi sentimenti.

Quaranta anni fa nessuno conosceva l'Afghanistan. Oggi lo conoscono tutti. Anche perché vi abbiamo sprecato migliaia di vite e molti miliardi per fermare una guerra senza fine. Cos'è andato storto?

«Semplice, non abbiamo capito come la pensano gli afghani. Aver tentato di imporgli la nostra volontà e il nostro modello di governo significa non aver capito nulla della loro cultura».

In Afghanistan viene progettato l'11 settembre. Tu quel giorno sei a New York e lo ricordi come uno dei più difficili della tua carriera...

«Sì, è vero, è stata una delle esperienze peggiori. Osservavo quanto succedeva e sapevo che c'erano delle persone intrappolate negli edifici. Sapevo che se fossero crollati sarebbero morti. Alla fine successe... e i morti furono quasi tremila. Esserne stati testimoni è al di là della capacità di descriverlo. Ho visto persone sui campi di battaglia e nei campi profughi, ma sapere che impiegati, poliziotti, vigili del fuoco e fotografi come me erano lì, ed erano migliaia... è stato un choc senza uguali».

Una volta la sfida era raggiungere luoghi sconosciuti. Oggi si viaggia ovunque e su internet ci sono le foto dei posti più incredibili. Com'è cambiato il tuo lavoro?

«Non mi interessano solo i luoghi sconosciuti, ma anche quelli assai familiari. Mi trovo bene a lavorare in centri urbani come New York, Roma o Tokyo. La questione non è dove sei o quanto lontano vai, ma la capacità di vedere un luogo con i propri occhi e raccontarlo dal proprio punto di vista».

Milioni di cellulari catturano immagini ovunque. C'è ancora spazio per i fotografi?

«Lo strumento ha poca importanza. L'unica cosa importante è saper catturare ciò che interessa di più. Curiosità, apertura mentale, tolleranza e tenacia restano i requisiti importanti per un buon fotografo».

C'è uno scatto che rimpiangi?

«Non penso mai così. Non guardo mai indietro. Guardo sempre avanti. Certo ci sono rimpianti, opportunità perdute e foto che avrei voluto fare o non ho potuto fare. Ma questo mestiere è così... Vedi la foto, alzi la camera e lei se n'è andata. Ma non puoi intignare e continuare a pensarci. Meglio lasciare che le cose ti passino sopra... Nella fotografia ci sono sempre più fallimenti che successi. Quando fai una selezione di migliaia di scatti quelli buoni, alla fine, sono ben pochi».

Le tecniche digitali possono cambiare una foto. Com'è cambiato il tuo lavoro?

«Le fotocamere digitali hanno aperto un sacco di possibilità per quanto

riguarda la luce e i dettagli. Possiamo vedere, editare e controllare un lavoro mentre lo realizziamo. Questo ci consente di valutare istantaneamente la luce, la composizione e l'immagine. E, alla fine, è un bel vantaggio».

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