Dario Ballantini: attore, imitatore, trasformista. Lo conosciamo bene, avendolo seguito ed apprezzato per anni a Striscia la Notizia, dove ha impersonato oltre cinquanta personaggi. Ma veramente lo conosciamo così bene? Per conoscerlo davvero, occorre approfondire un altro aspetto della sua poliedrica personalità. Ovvero, quello del pittore livornese Dario Ballantini.
La carriera del Dario pittore è parallela, senz’altro più sommersa data l'esposizione mediatica del personaggio, ma costante: si tratta di un percorso artistico ed espositivo incessante, che dura da quarant’anni, e che ha portato Ballantini ad esporre anche all'estero: da Parigi a Miami, da Londra ad Amsterdam.
A Livorno, al Polo Culturale Bottini dell'Olio fino al 20 settembre 2020, si sta svolgendo la Mostra Antologica 1980-2020 dedicata all’opera pittorica di Ballantini, a suggello della sostanza e dell’importanza della sua attività, che ci illustra - attraverso 47 dipinti, oltre a disegni vari e materiale video (documentari e videoarte) - i primi quattro decenni di una carriera che nasce da un’esigenza incontrollabile. Come ci racconta Dario.
Quarant'anni di carriera, sono una vita. Divisa, come la mostra in tre parti: il periodo livornese, quello milanese e a chiudere la sezione relativa al periodo del lockdown, che concentra molti lavori in poco tempo...
"È così: per me quarant’anni racchiudono quasi tutta l’attività artistica e i sogni realizzati lungo il percorso che ho man mano intrapreso, partito soprattutto dalla mia città dove inizialmente poteva sembrare molto azzardato pensare di avere la possibilità di fare una “vita d’artista”. Riguardo ai quadri del periodo del lockdown, sono stati fatti in un momento effettivamente particolare: il mio stato d’animo, come anche la mia predisposizione fisica, sono stati del tutto diversi dal solito, e per forza di cose hanno prodotto opere imbevute di quel momento. Che però ritengo avranno una valenza per sempre".
Credi che questo momento storico possa sovrapporsi al tuo momento personale, che si chiuda un cerchio per aprirne un altro?
"Sì, e me ne rendo conto soprattutto osservando la mostra: la sensazione è effettivamente che con i quadri degli ultimi mesi si sia chiuso un cerchio che però - appunto, in quanto cerchio - non ha mai un inizio né una fine: sempre parte dall’essere umano, sempre torna all’essere umano, sempre affonda nell’essere umano e sempre riapre l’argomento di cosa voglia dire “essere umani"".
Una mostra a Livorno a suggello della tua livornesità, in una città che è fucina di artisti. Quanto c'è in te dei tuoi illustri concittadini, da Giovanni Fattori a Modigliani, al Gruppo Labronico?
"Livorno ha per me è una importanza di formazione fondamentale. È chiaro che non posso dire di aver aderito a tutte le correnti che mi si sono presentate sia storicamente, come memoria della città, che “fisicamente” come vita vissuta in prima persona. Di sicuro sono stato più vicino ad un genere accostabile all’espressionismo, quindi più derivante dalla poetica di Nomellini, Modigliani, Voltolino Fontani ed altri, tra i quali il mio insegnante Giancarlo Cocchia; mi sento meno vicino, invece, alla maestria indiscutibile dei macchiaioli e dei post-Macchiaioli, che sono comunque stati una grande scuola da osservare, tanto è vero che i primi quadri li ho dipinti in una soffitta dove regolarmente dipingeva un pittore macchiaiolo. Per quanto riguarda il Gruppo Labronico, mi ha fatto piacere farne parte per un po’ di anni ma alla fine ne sono uscito perché non ce la faccio a sentirmi pittoricamente parte di un qualsiasi gruppo: sono scelte anche emotive, io sento il bisogno di fare una strada da solo, che parli a tanti, ma senza essere codificato od inglobato in qualcosa di predefinito. Rimane naturalmente un gruppo che ha fatto la storia della pittura in Italia".
Oltre ai dipinti, in mostra ci sono delle teche con i tuoi schizzi, su agende, diari, quaderni. Di cosa si tratta?
"Nelle teche, tramite appunto supporti quali diari e quaderni vari, abbiamo raccolto le testimonianze della mia perenne urgenza di raccontare con il disegno, che tuttora mi coinvolge in ogni momento di pausa: quando sono al trucco, quando viaggio, e via dicendo. È stata una bella opportunità per recuperare e riordinare i vecchi “documenti“ in modo che potessero attestare quanto prolifica, ossessiva ed incessante sia stata e sia la mia necessità di disegnare".
La figura umana, onnipresente nella tua opera. Credi che questo vada di pari passo con la tua altra professione, in cui ti occupi sempre di comporre ritratti di persone?
"La figura umana fa inevitabilmente parte della mia poetica personale, ed è quindi presente in entrambe le attività. Non potrei farne a meno. Ritengo che il volto umano sia il paesaggio più interessante da indagare in pittura e che l’essere umano, inteso proprio come “il prossimo“, sia lo specchio più importante che ci capita nella vita per avere una relazione, per fare dei due un uno".
Quanto (e come) ognuna delle tue attività influenza l'altra?
"Le due attività si influenzano tantissimo, direi quasi che si completano. “Mettersi nei panni degli altri”, cercare di assorbirne e renderne la personalità, implica anche un’operazione di “svuotamento” della propria personalità, che deve essere temporaneamente sostituita dalla personalità di un altro; e questa, una volta riespulsa, lascia inevitabilmente dei segni dentro. La pittura - che è fatta di segni - forse rappresenta per me anche lo sfogo di quanto inconsciamente io assorbo delle altrui personalità, dell’umanità che incontro in generale".
Quale Dario è preponderante, tra il pittore, l'attore, il trasformista... o altro?
"Se devo essere sincero, quello preponderante è un terzo Dario: si tratta del burattinaio di me stesso, che si vuole occupare da sempre della parte esistenziale, dell’inconscio e dell’introspezione, per riuscire ad andare alla ricerca dentro sé stessi dove pare si celino le risposte fondamentali. Il Dario introspettivo che continua incessantemente a farsi domande sull’esistenza, insomma. Se poi tocca fare una “classifica” vera, forse la spunta - per poco - il pittore, perché ha maggiore libertà di espressione e meno condizionamenti rispetto al mondo del lavoro. Non posso però negarti che, ogni volta che conosco una nuova persona, l’istinto sia sempre quello di coglierne le particolarità per poterla anche imitare, che sia per gioco o più semplicemente per predisposizione naturale".
Si tratta forse sempre, semplicemente, dell'esistenzialista Ballantini?
"Esatto, si tratta dell’esistenzialista! Tanto è vero che il critico Giovanni Faccenda ha detto che con la mia pittura si può tornare a parlare di espressionismo esistenziale".
Hai mai considerato l'ipotesi di "contaminare te stesso", magari preparando uno spettacolo teatrale allestendone anche le scenografie tramite le tue opere?
"Lo avevo visto fare anni fa a Dario Fo ed è una cosa molto interessante. Però dipingere, diciamo, “sotto osservazione” non è detto che porti ad una vera sincerità e a un prodotto valido. Potrebbe però essere molto intrigante per il pubblico. Nei miei due spettacoli, quello su Dalla (“Da Balla a Dalla”) e quello su Petrolini (“Ballantini e Petrolini”) ho inserito la pittura nel racconto perché fa parte della mia vita... ci devo pensare, ma mi sembra un buono spunto da valutare".
Azzarda una previsione... cosa farà Dario Ballantini, artista, nei prossimi quarant'anni?
"Non ne ho idea! So per certo che continuerò con Striscia la Notizia, che vorrò sviluppare lo spettacolo su Petrolini (quando sarà possibile con le nuove
norme) perché è la dimostrazione del suo genio e di quanto sia affascinante il macabro unito al comico. E, anche, riprendere il mio spettacolo su Lucio Dalla, che è stato un grande esempio di vita artistica a 360 gradi".
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