Sylvia Plath e Ted Hughes: un romanzo ripercorre l'amore autodistruttivo

In "Tu l'hai detto" Connie Palmen racconta la tormentata relazione tra i due scrittori

Sylvia Plath e Ted Hughes: un romanzo ripercorre l'amore autodistruttivo

Il defunto non muore mai. Siamo nel 1963, è il 15 marzo. Un mese prima, l'11 febbraio, Sylvia Plath si è uccisa ficcando la testa nel forno. Mattina, ultime correzioni all'ultima poesia, colazione per i figli pane, latte, un tot di burro cauti sigilli a porta e finestra. Poi Sylvia ha ficcato la testa nel forno. Decapitata dal gas. Un mese dopo, il marito della più folgorante poetessa americana del Novecento, Ted Hughes, uno dei più grandi poeti inglesi del Novecento, scrive alla suocera, Aurelia, e questa non è una fiction. «Il matrimonio di due persone come noi, così clamorosamente sottomesse ad abissali anormalità psichiche, ci ha portati a vivere in un modo in cui il nostro normale stato mentale era follia». Come se la morte fosse l'estrema beatitudine, Hughes specifica alla suocera che «Sylvia negli ultimi mesi è diventata un grande poeta, e nessun'altra donna poeta, a eccezione di Emily Dickinson, può essere paragonata a lei». La morte è inerte al cospetto delle ragioni estetiche, superiori. Infine, la frase che sigilla l'esistenza di un genio destinato a vivere con il tatuaggio di Caino e di Ismaele sul petto: «Non voglio il perdono. Non voglio diventare il sacrario pubblico del lutto e del rimorso preferirei essere il contrario. Se esiste l'eternità, che io sia dannato in essa».

Da qui si dilata la fiction dell'olandese Connie Palmen, Tu l'hai detto, edita da Iperborea (traduzione di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, pagg. 288, euro 17,50), che adotta un colpo da biliardo narrativo: far raccontare a Ted Hughes, relegato, per decenni, nell'infamia della colpa, «un bugiardo fedifrago e un traditore ipocrita», l'uomo che ha manomesso i diari della Plath dopo averne devastato l'esistenza («sono diventato l'esecutore della sua fama postuma, mettendo così in atto come un boia la mia stessa condanna»), quell'amore improvviso (Ted e Sylvia s'incontrano nel marzo del 1956, s'accoppiano, si sposano tre mesi dopo), violento, impossibile.

Il romanzo, così, è una potente anamnesi della psiche di Hughes, una disfatta confessione, narrativamente un poco monotono è una specie di lunghissimo delirio interiore ma che sanguina bellezza. Con lenta agonia, lo Hughes evocato dalla Palmen ricorda l'apparizione di Sylvia («Con il suo volto di luna e la pelle di seta ramata somigliava a un'attrice di Hollywood»), la foia («Facemmo l'amore come titani, a morsi, con voracità»), la follia (la Plath è radicalmente gelosa, profetizza ninfette tra le mutande del marito), i figli (cammeo mirabile: «Frieda Rebecca nacque sul fare del giorno di venerdì 1 aprile, con gli occhi blu elettrico del suo nonno prussiano, i lineamenti della madre e i capelli scuri degli Hughes»), il tradimento (di Hughes, con Assia Wevill: «Venerdì 13 luglio 1962 portai la mia Lilith in una camera d'albergo, le strappai di dosso i vestiti con tutta la nera tensione che avevo accumulato e la presi»).

Le parti più belle del libro riguardano la poesia, un veleno che uccide il poeta cauterizzando i dolori del lettore. Un paio di frasi vanno strappate e incollate al cuscino: «L'originalità di uno scrittore si riconosce dal coraggio con cui ha osato lanciarsi nell'abisso, e da quanto questo è profondo»; «Rinnegare la violenza è evocare la violenza. Rinnegare il male è evocare il male... Dobbiamo guardare in faccia i nostri mostri, ammansire i lupi, cercare il Minotauro nei labirinti della nostra anima e ucciderlo».

Hughes, che praticava la Cabala, faceva gli oroscopi e baloccava con i miti, scagliò i suoi mostri contro chi lo amava. Sylvia si suicida nel 1963; lui si mette con Assia, da cui ha una figlia, Shura. I due si separano. Nel 1969 Assia si suicida, emulando il suicidio di Sylvia, specie di lirica Erinni, insieme alla figlia. «Dopo il suicidio della mia musa nera mi convinsi che era tutta opera degli dèi. Ero un dannato, errante tra gli spettri, che contagiava tutte le donne della sua vita con l'oscurità malinconica da cui lui traeva una gioia tragica, ma che distruggeva loro».

La storia della coppia più bella del mondo narcotizzata dalla poesia, fino alla tragedia, ha riempito biblioteche. L'anno scorso l'ennesimo nugolo di lettere inedite di Sylvia accusano Ted di rifinite violenze domestiche. Faber&Faber, nel frattempo, ha pubblicato il primo volume delle Letters of Sylvia Plath 1940-1956.

Il rischio, devastante, è che la storia privata di due poeti eccezionali rischi di annientare la loro opera. Nei Diari, editi in Italia da Adelphi, Sylvia decritta il rapporto con Ted, tenebroso fin dal principio. Giorno di Santo Stefano, 1958: «Entrambi siamo troppo introversi: troppo spesso preferiamo i libri alla gente... se riesco a crearmi un'individualità e un lavoro posso assumere un ruolo attivo nella coppia, senza essere la metà dipendente e debole». Solitudine, ubriacatura di immaginazione, sensibilità sovrabbondante, senso di inferiorità. Morendo Sylvia, come gli dèi inferi, ha costretto Ted ad amarla per sempre. «Nella morte mia moglie si rivelò come mia Euridice e come artefatto letterario un'avversaria più pericolosa che non in vita».

Nel 1998, vent'anni fa, Ted Hughes pubblica la sua raccolta poetica più dolorosa, Lettere di compleanno, in cui rievoca il rapporto con Sylvia.

Morirà poco dopo, nello stesso anno. Il defunto non muore mai, l'amore è più feroce della morte, è celeste martirio. Il poeta, da sempre, tesse argomenti con i morti.

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