«Il commissario Montalbano che interpreta un mio testo? Un onore. Non vedo l'ora di vederlo in scena». E l'entusiasmo di Ronald Harwood - commediografo di fama mondiale, premio Oscar per la sceneggiatura de Il pianista di Polanski - non rende omaggio solo alla popolarità di Luca Zingaretti («Montalbano lo vedo tutti i giovedì - precisa - sul Channel Four della Bbc). Ma anche alle sue scelte artistiche. «Luca è un attore che non si accontenta di essere un divo. E non dimentica di essere nato in teatro». E allora eccolo, il ritorno in scena dell'amatissimo divo tv. Da oggi all'Eliseo di Roma, con La torre d'avorio, appassionante e celebrato dramma psicologico di Ronald Harwood.
Il teatro non rende divi, non dà visibilità, non arricchisce. Allora perché Zingaretti ci ritorna?
«Per tornare a casa. È in teatro che sono nato. E ci ho vissuto dodici anni, prima di diventare noto (piuttosto tardivamente) con la tv. Dirò di più: per me il vero attore è quello teatrale. Dopo averla imparata, infatti, può applicare la sua tecnica ovunque».
La torre d'avorio narra dell'appassionante «match» tra un anonimo maggiore dell'esercito americano (lei) e il mitico direttore d'orchestra Wilhelm Furtwängler (Massimo de Francovich). Riguardo che cosa?
«Siamo fra le macerie della Berlino del 1946. I vincitori vogliono processare i nazisti più celebri. Furtwangler, che costituirebbe una ghiotta preda, in realtà detestava Hitler (rifiutò sempre la tessera del partito) ma ebbe il torto di continuare ad esibirsi nella Germania nazista invece di abbandonarla, come molti altri intellettuali. Egli coltivava un'utopia infantile (o megalomane, se preferisce): mantenere viva la fiammella della cultura. Una scelta inesplicabile per il pragmatico maggiore americano. Che odia gli intellettuali e la musica classica. Ma che soprattutto ha visto i morti del campo di Bergen-Belsen. E ora ne chiede conto al colto musicista colpevolmente arroccato sulla sua torre d'avorio».
Al di là del fatto storico, dunque, un dilemma della coscienza? O un duello fra Arte e Potere?
«Entrambe le cose. Fino a che punto l'Arte può esercitarsi dentro al Potere senza diventarne complice? Il dubbio è appassionante: Harwood stesso evita di schierarsi per l'uno o l'altro dei due duellanti (non a caso il titolo originale è Taking sides: prendere posizione) proprio perché entrambi hanno la loro parte di ragione. E di torto».
Ma il pubblico come reagisce? Si aspetta un match «intellettuale» tanto raffinato dal suo beniamino tv?
«Sono sincero: all'inizio temevo che la gente si aspettasse altro, da me. Mentre poi la sera, in camerino, in tanti vengono a trovarmi per dirmi il loro entusiasmo. Finalmente uno scontro d'idee coinvolgente!».
E lei? Da che parte sta?
«Impossibile rispondere. Capisco il musicista che vola alto, scorgendo nell'arte una possibilità di riscatto. Ma capisco anche il maggiore, i cui ragionamenti terra-terra rivelano un'onesta concretezza. Una cosa è certa: come ha scritto qualcuno, quando leggi una commedia in cui personaggi contrapposti sembrano avere tutti ragione, allora stai leggendo un capolavoro».
Ronald Harwood ha definito il suo Montalbano un'«icona». Che le effetto le fa un complimento simile, da un simile fan?
«Mi conferma che sbagliai di grosso quando, anni fa, dissi che presto avrei smesso d'interpretarlo perché, altrimenti, ne sarei rimasto intrappolato. In realtà se come attore hai la fortuna d'incontrare un personaggio che raccoglie tanto affetto ovunque, devi tenertelo ben stretto. Così ho cambiato idea».
E quando il suo illustre fan potrà vederla di nuovo in quei panni?
«Me lo ha chiesto proprio oggi. Gli ho risposto che sulla Rai partiranno altri quattro episodi dall'8 aprile. Ma che sulla Bbc non so quando andranno. M'è parso decisamente seccato».
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