I classici a teatro sono l'incubo e il sogno di ogni grande direttore artistico: qual è la chiave per trasformarli in linfa vitale e innovativa nella contemporaneità? È il dilemma che ha attraversato anche Giancarlo Marinelli, che - scrittore, regista, drammaturgo, attore - su eredità e appartenenza storica e familiare ci lavora già nei romanzi (vedi Il silenzio di averti accanto, La nave di Teseo). Ora, chiamato per il biennio 2019-2020 a dirigere lo storico ciclo di spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, lui - vicentino di nascita, classe 1973 ha subito pensato a come ribaltare, invece dei classici, la visione che ne abbiamo. Dai Frammenti di Memorie di Adriano che hanno inaugurato il suo programma alla fine di settembre, a Ecuba che ha portato un cast strepitoso in scena con la regia di Andrea Chiodi e la produzione del Centro Teatrale Bresciano, l'infilata di prime nazionali progettata da Marinelli, che si chiuderà l'ultimo weekend del mese con la lectio olimpica di Vittorio Sgarbi su «Palladio e l'ordine del mondo», è la dimostrazione che battere un colpo a favore dell'eternità della bellezza si può.
Che cosa porta di nuovo la sua operazione nella visione che abbiamo dei classici a teatro?
«L'Olimpico è il teatro più antico e più bello del mondo, quindi mi sono trovato di fronte a una grande responsabilità e un grande sogno. Ho cercato di fare un'operazione che mi auguro riesca, pensata in un biennio: prima di tutto, evitare di imporre cifre narrative che prescindono dallo spazio stesso. Gli spettacoli devono nascere in adesione con lo spazio, il teatro deve tornare ad essere una celebrazione».
Come si cala questo concetto in un cartellone?
«I classici devono essere rappresentati come storie che raccontino quello che succede allo spettatore che da lassù guarda in picchiata attori piccoli come vermi e scende, fino a farli diventare più grandi di lui. Muoiono gli dei che non sono cari ai giovani: l'uomo spettatore si ribella all'idea che le storie siano mosse dagli dei e pretende che il teatro abbia al centro uomini, artefici dei propri destini. Fino a riflettere il passaggio dall'era classica alla contemporaneità: per il 2020 ho in preparazione la tragedia contemporanea, mai narrata in teatro prima».
Ovvero?
«Un colossal sull'11 settembre, Eleven, che per la prima volta porta sul palcoscenico la narrazione del 2001. Saranno presenti tutte le figure storiche, da Bush e sua moglie alla mamma di Bin Laden fino a Harold Pinter, che il giorno prima dell'11 settembre lanciò un'invettiva contro l'America. Ci saranno personaggi presi dalla realtà che sono diventati celebri dopo la morte sofferta lì dentro: saranno il coro, nella struttura ispirata ai persiani. Diventerà anche un romanzo, per un motivo metodologico: non sarà solo il tentativo di comprendere che cos'è la tragedia, ma quale è il tempo della tragedia».
Che cosa aggiungerà a tutto quello che abbiamo visto e sentito sulle Torri gemelle?
«Io la morte di Kennedy non l'ho mai vissuta, ma mio padre e mia madre mi hanno sempre raccontato quel momento: dove si trovavano, che cosa facevano nel loro microcosmo nell'attimo in cui hanno saputo che era morto Kennedy, o Aldo Moro. Mi ricordo invece dov'ero l'11 settembre, chi mi ha avvertito mentre mi trovavo in macchina con l'autoradio scassata e il telefono senza batteria. Quindi il fuoco è sul tempo della tragedia: i miei figli vivranno quella tragedia come ho fatto io con Kennedy e quello che mi interessava indagare è come siamo puntellati, nella nostra vita, di ricordi che non sono i nostri, perché la percezione collettiva era così grande che è questa a diventare nostra».
Come il senso del tempo della tragedia può diventare uno spettacolo?
«Non ci devono essere ricostruzioni dietrologiche o teorie complottistiche tipo quelle sentite negli anni dai più fantomatici coglioni che si sono messi a disaminare la tragedia annunciata».
E quindi che cosa si dovrebbe raccontare?
«Ad un certo punto della mia vita mi sono imbattuto in alcune fotografie di Konstantin Petrov, un ragazzo incriminato in Estonia perché manometteva i decoder del suo Paese perché intercettassero quelli finlandesi. Fuggito negli Usa, trova lavoro nella torre Nord, all'ultimo piano, come elettricista notturno. In quello che si chiama FogCam, una specie di Facebook ante litteram, posta le foto che fa mentre lavora: ambienti vuoti, strazianti, asciugamani dei bagni, tazzine ribaltate dei ristoranti, post it delle scrivanie. Potrebbero essere state scattate ovunque. Ma lui l'11 settembre muore e allora capisci che nelle visione delle Torri e di tutta la loro tragedia ci mancavano le piccole cose: abbiamo visto una caduta in cui tutto è gigantesco. Le piccole cose: ecco il tempo della tragedia moderna».
E se invece si fa Romeo e Giulietta?
«Se fai Romeo e Giulietta devi fare quello, se fai un'altra cosa devi fare un'altra cosa, senza pararti col suo titolo e usarlo come cavallo di Troia per raccontare la tua storia. Che poi è anche un po' vigliacco: se Sofocle o Shakespeare fossero protetti dalla Siae col cavolo che potresti farlo».
Di che cosa ha bisogno il teatro nel 2020?
«Di scrittori che guardino a quello che succede oggi con il respiro, il coraggio e la determinazione dei classici. La drammaturgia contemporanea mi fa ridere: ce ne sono tantissimi in scena, ma nessuno che abbia il passo e il respiro di storie universali».
La gente va ancora a teatro?
«C'è una frattura totale fra il mondo dei media che racconta la vita culturale italiana e il
pubblico che la frequenta: il teatro viene considerato come una cosa morta che non attira più quando in verità da noi anche il teatrino più sfigato di provincia caccia via la gente. Chi è stufo di cambiare canale va a teatro».
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