Cultura e Spettacoli

Veltroni punta alto e sfida Hanna Arendt. Con "La scelta" ha scritto la banalità del Bene

Una storia familiare nella Roma del 1943. Che insegna a odiare l'odio

Veltroni punta alto e sfida Hanna Arendt. Con "La scelta" ha scritto la banalità del Bene

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«Veltroni è convinto che i sentimenti, in un'epoca di risentimento dominante, siano una cifra dimenticata ma indispensabile del vivere insieme, capaci di dare un senso ad una comunità culturale, politica, sociale». È un pensiero stampato sulla quarta di copertina de La scelta, edito da Rizzoli, il nuovo libro di Walter Veltroni. Cosa significhi tradotto in pratica non lo so, potrebbe essere tanto una predica di papa Francesco quanto uno slogan del fu Partito dell'amore di Cicciolina, però Cicciolina l'avrebbe scritto meglio.

Tuttavia è un nuovo libro di Veltroni, che come sappiamo ne sforna in continuazione, in genere di cinquanta pagine ma l'editoria ha dovuto inventare il corpo Veltroni, cioè stamparli con caratteri grandi per farli sembrare libri normali. I giornalisti culturali della cerchia veltroniana, che sono ovunque, lo hanno sempre elogiato, paragonandolo a chiunque, da Pirandello a Conrad, a García Márquez, senza sentirsi in colpa, tanto mica li hanno letti e Veltroni serve, soprattutto a se stesso.

Veltroni è prolifico, produce gialli che credo leggano solo i veltronisti, (ma l'ultimo giallo è stato attaccato dalla Murgia, forse stai a vedere che stavolta vale un Simenon), film che vorrebbero essere documentari ma non sono né l'uno né l'altro ma sempre con tanto amore (ma non conta, per il cerchio magico veltronista sono tutti bellissimi, resta il mistero di dove trovi i soldi per ogni flop, ma l'ho detto, ha tanti amici), romanzini per bambini da vendere agli adulti, titoli illuminanti come Odiare l'odio (come gli sarà venuto in mente?), sepulvediani, reportage dall'Africa, di tutto e di più e di meno che è sempre di più. Ma stavolta è diverso, stavolta punta in alto. Voglio dire, ha scritto un libro medio, normale, ambientato nella Roma del 1943, con capitoli alternati da tre voci: il padre, fascista, il figlio, antifascista, e la sorella, «che vuole imparare la libertà». La trama è tutta qui, e le voci sono identiche: a parte il fascista, l'antifascista, e la ragazza che sogna la libertà si sente la stessa voce, quella di Walter, che si immedesima in tutti, o meglio immedesima tutti in se stesso, nei sentimenti, nell'amore, nell'odiare l'odio. Tant'è che a un certo punto il padre fascista e il figlio antifascista si picchiano, ma poi si pentono, l'amore vince su tutto.

Ci sono riflessioni illuminanti ovunque che spiegano il fascismo alle nuove generazioni: «Tutti incasellati, tutti costretti all'obbedienza a un signore, chiamato pomposamente Duce, che nessuno aveva scelto, ma che era entrato nel cervello di molti e nel cuore di tanti, riducendo le persone a un esercito con la testa bassa, capace di dire solo una parola: sì». Ci sono anche pensieri per ingraziarsi le femministe, come questo: «Lui ha sempre chiamato sua moglie mamma, in questo riassumendo la sua idea di donna: una persona senza nome, dedita solo alla procreazione che ne sanciva l'unica plausibile identità». Anche mio papà e mia mamma si chiamavano davanti a me «mamma» e «papà», non ho mai saputo fossero fascisti e patriarcali, ma stavolta la Murgia non potrà dire niente, un consenso in più.

Anche perché i personaggi neutrali, smarriti, sono solo le donne. «Padre e figlio sono nemici. Nemici che si vogliono bene. Ma nemici. Margherita è smarrita, la paura che tracima dal cuore». I maschi si odiano, ma odiano odiarsi, la sorella ha la paura che tracima dal cuore e si riversa sul lettore che sbadiglia.

Veltroni, bisogna ammettere, fa un uso sofisticato di una tecnica narrativa molto usata in Italia: far parlare un ragazzo, una ragazza, così se i pensieri ti sembrano troppo semplici è perché sono giovani, poi il personaggio del padre pensa e scrive nello stesso modo, ma quella è la voce di Veltroni, che con l'amore vuole dare un senso a una comunità culturale, politica, sociale, la sua. Mi sorprende che nessuno lo abbia ancora paragonato a La banalità del male di Hannah Arendt, ma c'è tempo, è appena uscito. E secondo me questa volta ce la farà, sono sicuro che ce la farà, spero che ce la faccia: La scelta è la banalità del bene di Walter, così pieno di sentimenti che uno Strega questa volta se lo merita.

Giurati, a voi la scelta.

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