"Il vero scandalo oggi? È un matrimonio che dura mezzo secolo"

Il regista bolognese Pupi Avati dirige una serie tv in sei puntate su Raiuno. La storia di una famiglia "normale" dal 1948 ai nostri giorni

"Il vero scandalo oggi? È un matrimonio che dura mezzo secolo"

«Sei anni fa, quando per la prima volta proposi alla Rai di girare un film su un matrimonio che dura mezzo secolo mi risposero: allora è una fiction in costume. Praticamente, eravamo già tutti con la marsina, le ghette e i baffoni ottocenteschi... Ma come!, replicai, sono sposato con mia moglie da quarantanove anni e vesto come lei... Il fatto è che oggi il matrimonio duraturo è considerato in via di estinzione. Lo scandalo non è la separazione, ma il matrimonio che resiste».
Pupi Avati è pronto a metterci la faccia...
«E non accetto lezioni da nessuno. La so lunga perché è lungo il legame con mia moglie. Quando sento qualche giovanotto che dopo pochi anni pontifica che il matrimonio è un'istituzione superata e che non si può restare tutta la vita al fianco della stessa persona, mi ribello. Se ti arrendi alle prime difficoltà non puoi sapere che un legame acquista in bellezza e complicità col passare del tempo».
Diretto da Pupi Avati, prodotto con il fratello Antonio e sceneggiato anche con Claudio Piersanti, domenica sera su Raiuno va in onda la prima di sei puntate di Un matrimonio, «un film in 600 minuti (chiamarlo fiction è riduttivo)», interpretato da Micaela Ramazzotti e Flavio Parenti. È la storia di due giovani che si sposano nel dopoguerra e, superando momenti difficili, si ritrovano insieme ancor oggi. L'Italia intanto vive la stagione del boom economico, del referendum sul divorzio, della strage di Bologna, della nascita della Seconda Repubblica (tutti eventi ricostruiti grazie al repertorio delle Teche Rai).
Ci vuole coraggio a raccontare il proprio matrimonio in tv...
«In realtà, nella prima parte si tratta di quello dei miei genitori, mentre nella seconda diventa il mio. Ci vuole coraggio perché oggi hanno più visibilità le situazioni complicate e i fallimenti. Invece credo che i matrimoni che reggono siano molti più di quelli che vengono raccontati al cinema e in tv».
Anche la parola è caduta in disuso; a fronte, per esempio, di “convivenza”, assai di moda...
«Quando nuovi amici o collaboratori mi presentano quella che fino a ieri sarebbe stata la moglie come “la mia compagna” fanno intendere che il legame tra loro non è un matrimonio definitivo, bensì un rapporto subordinato agli eventi. C'è questo timore che legarsi a una persona pregiudichi quello che la vita può riservarti. Dopo qualche anno ti puoi imbattere in una donna più carina, più intelligente, o professionalmente più funzionale...».
Passerà per conservatore...
«Probabile, ma non m'interessa».
Un'altra realtà di moda, anche sulle nostre tv, è la famiglia allargata.
«Oggi la gamba zoppa è la famiglia. Meriterebbe l'attenzione di tutti molto più dello spread. È nelle nostre famiglie che nasce il tipo di italiano strafottente le cui gesta sentiamo narrare dalle cronache. Mi sento confortato quando il Papa dice che bisognerebbe reintrodurre l'uso del “per favore”, del “grazie”, del “permesso”. Come abbiamo visto anche in certe fiction recenti, anche le televisioni partecipano a questo degrado. Per esempio, demolendo la figura paterna e presentandoci pessimi padri».
La sua non sarà una storia senza rischi e tensioni?
«Anzi. È anche una commedia all'italiana con i suoi elementi classici. Non racconto una storia tutta rose e fiori. Ci sono le separazioni e gli adulteri e tutte le interferenze che fanno vacillare un sodalizio. Però questi due individui sono sempre visitati da una forma di resipiscenza per cui avvertono anche una responsabilità nell'aver generato dei figli. Non puoi ritenerti esentato dall'essere padre o madre».
Il Papa esorta i giovani a fare scelte definitive...
«Sono scelte che richiedono un margine d'incoscienza e d'irragionevolezza. Quando ti trovi a 25 anni al fianco di una diciannovenne prevalentemente per ragioni estetiche e sentimentali, non sai ancora niente o quasi di quella persona e della vita stessa. Ma davanti a un'autorità, davanti a un prete, rischi, come suggerisce il Papa. Per me quel rischio ha funzionato. La società di oggi manca di storie intrise d'incoscienza che s'incamminano verso la responsabilità perché conduciamo una vita da commercialisti - con rispetto parlando - fatta di calcoli. Se tu credi nella vita, la vita ti ricambia».
La parola dell'anno è selfie, che identifica la moda dell'autoscatto. Hanno vinto autoreferenzialità e narcisismo?
«Temo di sì. Sono forme di egoismo che non pagano nel tempo. Io penso che ci completiamo negli altri. Quanto più vai avanti negli anni, tanto più la cosa bella è vedersi riflessi nelle persone che ti sono accanto, figli e nipoti. A Natale a casa mia eravamo in trentadue, con un sacco di bambini. Tutt'altro che selfie».
Un altro tema toccato dal suo film è quello della gratuità, con la storia dell'adozione di una bambina paraplegica. È reale?
«Purtroppo no. Mi è nata perché penso che i figli naturali siano importanti ma i figli adottati lo siano ancora di più. Mi sono sempre rimproverato di non aver avuto il coraggio del protagonista di questa storia che, alla fine degli anni '50, in un orfanotrofio chiede in adozione l'unica figlia paraplegica. Sarà lei a narrare la storia dei suoi genitori perché nella sua condizione è costretta a casa più a lungo dei figli naturali. E quindi ne conosce i segreti».
In Emilia Romagna, una bambina è stata affidata a una coppia omosessuale...
«Conosco la storia, ma sono assolutamente contrario. Senza tentennamenti. I genitori sono un papà e una mamma, credo che un bambino ne abbia diritto.

E credo che crescere in un contesto dove ci sono due mamme o due papà possa complicare la formazione. Ovviamente, sono favorevole alla parità dei diritti a livello sociale, politico, civile delle coppie omosessuali. Ma sull'adozione sono irremovibile».

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