"La vita cambia in un attimo Vi racconto quale fu il mio"

La scrittrice americana parla della sua formazione: "Un'amica si uccise quando avevo 18 anni. Uno choc"

"La vita cambia in un attimo Vi racconto quale fu il mio"

Il primo racconto fu pubblicato su Mademoiselle, una «elegante rivista di moda», nel 1959. Prima di allora, e dopo, Joyce Carol Oates ha scritto oltre quaranta romanzi, e poi racconti, poesie, opere teatrali, saggi critici, articoli. Una produzione enorme, nella quale la scrittrice americana ha parlato relativamente poco di sé. I paesaggi perduti (Mondadori, pagg. 316, euro 22) racconta la sua infanzia, la sua famiglia e, come dice il sottotitolo, è il «Romanzo di formazione di una scrittrice». Joyce Carol Oates ne parlerà in Italia al festival Collisioni di Barolo, il 16 luglio.

Come mai ha deciso di scrivere un memoir?

«Dopo la morte di mio marito Raymond Smith, nel febbraio del 2008, ho raccolto alcuni contributi giornalistici in un memoir intitolato Storia di una vedova, che è apparso alcuni anni dopo. Nel corso della mia carriera ho scritto dei pezzi memorialistici sulla mia infanzia, il crescere in una fattoria, le prime esperienze di lettura, i miei genitori, la vita da scrittrice. Per uno scrittore non è affatto inusuale comporre dei memoir».

Un memoir può essere autentico?

«Certo, può essere autentico. E dovrebbe esserlo».

Qual è il ruolo della memoria per uno scrittore?

«La memoria determina la personalità. Non avremmo i nostri sé, se non avessimo una immensa raccolta di memorie personali, che ci definiscono rispetto a noi stessi e agli altri. Gli scrittori tendono ad avere un'ottima memoria, soprattutto per quanto riguarda i dettagli visivi e uditivi».

A un certo punto paragona la memoria dello scrittore a «un sacchetto dell'aspirapolvere»...

«Un romanziere ha bisogno di una abilità superiore all'ordinario per richiamare il passato, e anche le sfumature emozionali di esso. I poeti, che fondamentalmente distillano le loro memorie, in realtà non hanno bisogno di ricordare così tanto. Il poeta ottiene il suo effetto precisamente attraverso il linguaggio; il romanziere attraverso l'accumulo di molti dettagli».

In questo libro scrive molto di sua madre, di suo padre e della fattoria in cui è cresciuta, nella parte nord occidentale dello Stato di New York, negli anni Quaranta. Perché ha voluto raccontare i suoi genitori, e il loro mondo?

«La maggior parte dei ricordi dell'infanzia riguarda i genitori e la famiglia. È abbastanza naturale. Nel mio caso, il mio interesse letterario scaturisce in gran parte dalla madre di mio padre, che era ebrea, ma non riconosceva se stessa come ebrea, e tuttavia esaltava qualità come l'istruzione, la lettura dei libri, il rispetto per la ragione e l'intelletto. Il mio memoir racconta anche la formazione di una scrittrice: i modi attraverso i quali uno scrittore matura».

È diventata scrittrice in una America «rurale», scrivendo e leggendo fin da piccola, passando attraverso una classe con alunni di otto età diverse, e poi una borsa di studio che l'ha portata all'università.

«Non è così insolito che uno scrittore cresciuto nell'America rurale riesca nella carriera. William Faulkner proveniva da una cittadina piccolissima del Mississippi, e ha innalzato il suo milieu al livello di mito. Per quanto riguarda l'università, quando ho cominciato come matricola alla Syracuse University mi sono innamorata della filosofia: non avevo mai conosciuto la filosofia prima, come materia accademica. Insieme ai corsi di letteratura è diventata il centro della mia vita intellettuale».

Nel libro accenna a singoli episodi che possono cambiare completamente la nostra vita, per esempio quando scoprì Alice nel Paese delle meraviglie, o quando fu costretta a cambiare scuola superiore e finì, per caso, in un ottimo istituto. Quali sono stati i più importanti?

«Ciascuno di noi può indicare un incontro o uno scambio profondo, che ci abbia cambiato la vita, spesso nell'infanzia o nell'adolescenza. Uno dei più profondi, per me, è stato l'esperienza di perdere una cara amica: si uccise quando avevo 18 anni. Fu del tutto uno choc. Ma ci sono anche i ricordi affettuosi della mia nonna, che mi regalò una macchina per scrivere quando avevo 14 anni; o il crescere in una piccola fattoria, dove i miei compiti erano, fra l'altro, quelli di curare e dare da mangiare ai polli».

Racconta che all'università scriveva una quantità di romanzi e racconti «sperimentali», uno dopo l'altro, e poi li buttava via... Lo fa ancora oggi, rivede e rivede quello che scrive?

«Sì, spesso cambio, correggo e sperimento con lo stile. Nell'arco di tempo in cui ho completato un romanzo di cinquecento pagine, probabilmente ne ho scritte cinquemila. Sono in qualche modo una perfezionista della voce: continuo a scrivere e riscrivere, fino a che il tono dei brani sembra quello giusto. Amo le molteplicità della voce umana, il discorso umano: può virare dall'esaltato al comico, dall'ignorante al brillante, e spesso è musicale nelle sue cadenze».

Nei suoi romanzi è presente un elemento gotico, più o meno accentuato. Perché?

«Gotico significa surreale: una intensificazione della realtà. Come nei nostri sogni, il surreale in realtà non è così inusuale; ne facciamo esperienza di notte, con la dissoluzione della coscienza. Spesso l'immagine surreale è più potente e significativa di una realistica, come nella figura iconica di Frankenstein. Il mostro non è reale: ma la mostruosità di cui la scienza è capace è molto reale, per esempio nel creare armi nucleari».

Che cos'è la solitudine per uno scrittore?

«Gli artisti desiderano ardentemente la solitudine e lo stare da soli, perché devono concentrarsi sul loro

lavoro. Uno scrittore, quando è da solo, probabilmente non è solo. Ma l'opera scritta è concepita per essere condivisa da altri: così, la solitudine dello scrittore diventa un modo paradossale per comunicare con il mondo».

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