Gli piace farsi aspettare. Ma aspettare gli piace di più. Però il suo pezzo forte è aspettare se stesso. «En attendant François» sarebbe un buon titolo per il suo prossimo libro. Più o meno dovremmo esserci, visto che l'ultimo, Royal Romance, uscì nel 2012, e che al Nostro ultimamente occorre almeno un lustro per modellare la sua prosa spiraliforme, dove le immagini suscitate dalla memoria rimbalzano, avanti e indietro nel tempo, da una batteria di specchi in cui a riflettersi (e a riflettere) è soprattutto lui, François Weyergans, classe 1941, belga di Etterbeek, a un passo da Bruxelles, ma francese da un'eternità. L'eternità pro forma cui vengono consegnati i membri dell'Académie française dove entrò, a proposito di attesa, con quindici minuti di ritardo, il 16 giugno 2011, andando a occupare, immaginiamo con un po' di apprensione, «le fauteuil maudit», «il seggio maledetto» numero 32, passato dalla finzione di genere polar di Gaston Leroux, datata 1910, alla triste verità della morte di Maurice Rheims prima e di Alain Robbe-Grillet poi...
Aspettare è, in fondo, verbo cardinale per ogni scrittore, poiché ne determina i percorsi e i ritmi, previa l'immobilità dell'attesa. C'è un passo, in La demenza del pugile di Weyergans, che lo spiega bene: «Quando uno ha invaso, giorno dopo giorno, la vita delle persone che ama, non rinuncia facilmente al potere che aveva su di loro e continua a dettarne la condotta: Non morire, lasciamelo fare al posto tuo». Qui è Melchior Marmont a pensarla così, a porsi, ottantenne, la morte come vicino orizzonte. E chi è Melchior Marmont? Ovviamente un altro François Weyergans: come lui ex cineasta, come lui passato alla scrittura, come lui logorato e angosciato, anni prima, dall'attesa della fine della madre. «La demenza del pugile» è il titolo che Marmont ha scelto per il libro che conterrà le sue memorie. E che come tutto, in Weyergans, si fa lungamente attendere. La demenza del pugile è ora in uscita da L'Orma editore (pagg. 183, euro 16, traduzione di Maria Baiocchi), e fa il paio con Tre giorni da mia madre (Gaffi, 2007), dove a parlare-scrivere, in prima e non in terza persona, è tale... François Weyergraf, scrittore e cinefilo in ambasce per la salute di mamma, naturalmente. Ma non è finita qui, la genealogia vera e/o posticcia di Weyergans, il quale, parlando di un altro suo romanzo, Franz e François (L'Orma, 2015), in un'intervista disse: «Padre e figlio si chiamano Weyergraf. Due sillabe rinviano al mio cognome, la terza, graf, allude alla scrittura. Questa potrebbe essere la percentuale di vero e falso nella storia: due terzi e un terzo».
Aspettare se stesso, dunque, sotto spoglie così poco mentite da essere pressoché adamitiche, da mostrare cioè, fingendo di celarla, la propria nudità. È questo il nucleo del Weyergans scrittore che, come dice di Marmont, vuole «ridiventare Faust, conoscere ancora, godere ancora», a dispetto dell'età. Il titolo La demenza del pugile, scritto peraltro nel '92 dall'allora cinquantenne Weyergans, non inganni. Non c'è traccia, in Marmont, di demenza senile, al contrario, tutto per lui è retto da ciò che potremmo chiamare vitalismo nostalgico: il ricordo di questa o quella donna, moglie o amante che sia, degli incontri fra attori e registi al Lido di Venezia o sulla Croisette di Cannes, della gelosia nei confronti del nuovo compagno della mamma vedova, del padre morto nella Prima guerra mondiale... Per questo l'ottuagenario decide di acquistare la sontuosa dimora del patrigno dove trascorse l'infanzia con i due fratelli e la mamma. E ora è lì, da solo, in quel posto violentato e stravolto dai precedenti proprietari e che non riconosce più come suo, e pensa agli incontri con Chaplin, con Antonioni, al suo periodo americano, all'amicizia con Cecil B. DeMille... È inverno, c'è un tempo da lupi, porte e finestre sbattono provocandogli brividi di paura, oltre che di freddo. E Marmont, in attesa che suo figlio Malcolm venga a prenderlo, fa i conti con se stesso, ben sapendo che non gli resta più molto tempo per aspettarsi...
Se in La demenza del pugile che vinse il premio Renaudot nel '92 c'è un tono pascaliano, pensieroso, o addirittura ciceroniano, in stile De senectute, in Tre giorni da mia madre, che valse a Weyergans il Goncourt nel 2005 battendo La possibilità di un'isola del favorito Houellebecq, prevalgono l'ironia, il motteggio, il disincanto. Qui sembra di essere in un film di e con Woody Allen: tanto sesso fatto, immaginato e ricordato (non però con le minorenni: a Weyergraf-Weyergans piacciono le femmine fresche, sì, ma anche cazzute e sicure di sé), serate alcoliche, ritmi serrati. «Viaggio, sesso e prosa, che trinità!»; «Tradiscimi, sennò ti lascio», dice al narratore una occasionale compagna; «Il solo hashish che ho assunto con piacere è leggendo I paradisi artificiali!», dice il sessantenne protagonista. L'intellettualismo, il citazionismo, e generose dosi di cinismo, ipocondria, solipsismo e disillusione fanno di François Weyergraf («pur avendo realizzato cinque film e pubblicato dieci romanzi, io faccio paura a tutti») un personaggio da commedia rosa-noir che, come l'omonimo di Franz e François del '97, battaglia a distanza con il cattolicesimo intransigente del padre. «Il cattolicesimo si incolla alla pelle, non se ne sbarazzerà mai, come di una vecchia camicia», gli dice lo psicanalista.
Qualcosa di simile può averla detta a Weyergans niente
meno che Jacques Lacan, che lo ebbe in cura, un bel po' di anni fa. E magari si saranno soffermati anche sui due eroi del piccolo Weyergans: Tintin e Gesù Cristo. «Sono passato dal Granchio d'oro al Vangelo secondo Luca...».
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