Addio Vittori, il mago Merlino che creò Mennea

Ma non solo Pietro: da Azzaro a Preatoni e Pavoni, allenò una squadra vincente

Addio Vittori, il mago Merlino che creò Mennea

Se passi una notte cercando di imparare a memoria la poesia dialettale che ti ricorda come "passo l'angeli e disse ammen", allora sai che ripetendola a voce alta rendi omaggio ad un uomo che hai stimato, amato e anche detestato davvero. Lo abbiamo fatto nella notte di vigilia del Natale quando ci hanno detto che il cavalier Carlo Vittori, allenatore di atletica, nato nel giorno degli esploratori dell'anima il 10 marzo 1931 in Asculè, aveva deciso che il suo figlioccio Pietro Mennea si allenava poco, lassù nel cielo ed era ora di raggiungerlo per farlo correre ancora più forte.La poesia dialettale era di suo fratello Emidio, poeta, bibliotecario, ancora nelle staffette veloci di famiglia, triplista, voce tonante nella città di Ascoli che Gide considerava bella come il Sud della Francia.Con questo gigante dello sport, della vita, abbiamo passato forse più tempo che in famiglia. Lui ci aveva aperto le porte del regno di Formia. Era il principe fra i "Cervelli d'Italia", una inchiesta che il Giornale propose quando Alfio Caruso dirigeva lo Sport e voleva saperne di più su questo antro del sapere. Abbiamo detto amato e detestato. Ma era proprio quando si litigava che imparavamo di più. Tutto cominciò quando il professor Mascolo, nel 1969, aveva capito che Pietro Mennea doveva mangiare bistecche diverse, lontano da Barletta, nella casa del sapere della scuola Zauli dove Vittori, quando vide in quel ragazzo qualcosa di speciale, disse a tutti che doveva essere qualcosa di più di un velocista. Certo che doveva mangiarne di bistecche e lo hanno fatto fino al primato mondiale dei 200 e all'oro olimpico di Mosca. Che vita hanno passato insieme. Se ascoltavi bene pensavi sempre che stessero litigando. Invece soffrivano, si inseguivano e il prof sulla vespa esercitava la resistenza alla velocità dell'allievo più famoso che con il suo nome oscura una storia straordinaria: sono 64 le medaglie che la "squadra di Vittori" ha dato all'atletica italiana e che la superficialità tende a dimenticare. Nessuno ricorda il trio del salto in alto, Crosa, Azzaro, Schivo. I saltatori in lungo finendo ad Arrighi che nel sogno voleva bastonare il prof. Tutti quelli della famiglia speciale con muscoli di seta. La famiglia della staffetta, dal grande sarto Ennio Preatoni, poi diventato anche eccellente allenatore, alla generazione che lo amava e contestava, troppo duro il lavoro, quelli dell'argento mondiale di Helsinki 1983, il poeta Simionato, il Peter Pan Tilli, lo straordinario Pavoni che nell'abbraccio finale sembrava nato altrove, un supertalento che si strappò sul traguardo compromettendo una storia che sarebbe stata grandissima, e ovviamente Mennea.Noi c'eravamo al Campo di Marte fiorentino quando scavalcò i cancelli chiusi per misurare la falcata e le chiodate di Marcello Fiasconaro dopo l'allenamento che lo fece saltare sui gradoni. Non disse niente, sapeva che quel ragazzo sudafricano figlio di un aviatore napoletano aveva nelle gambe e nel cuore il record mondiale. Lo fece all'Arena di Milano, una corsa che nasceva in un altro mondo, ma che aveva bisogno del ritocco come se Formia fosse diventata Houston. Era il 27 giugno del 1973 per far diventare quell'1'43"7 come il 19"72 di Pietro suo sei anni dopo a Città del Messico sui 200.

Caro professor Vittori, mago Merlino per la gente con muscoli di seta, siamo felici di aver attraversato il grande sport tenuti per mano da lei che ci raccontava della sua Africa, del suo mondo, delle sue torri ascolane. Ci mancherà.

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