Diceva un grande scrittore come Cesare Pavese che non è bello essere nostalgici, ma è invece bellissimo, da anziani, pensare a quando lo eravamo. Erano i giorni dove l'anno bisestile fioriva con i Giochi olimpici che adesso la pandemia ci ha rubato, insieme a tante altre cose. Per questo guardiamo con nostalgia ai giorni in cui lo sport italiano presentava campioni senza mandolino, ma con cuore e gambe da leoni. Gente che stupiva, perché nessuno immaginava che potessero nascere da noi, ad esempio, due campioni olimpici di maratona come Gelindo Bordin, Seoul 1988, e Stefano Baldini, Atene 2004. Re nel regno della fatica, della sofferenza.
Una lunga corsa iniziata, come ci ricorda nei suoi meravigliosi fuori tema Augusta Frasca, voce della grande atletica, con il tipografo della Gazzetta Ugo Frigerio, milanese, figlio di ortolani che avevano la bottega in via Tivoli, oro sui 10 chilometri di marcia, il primo italiano di sempre sul podio, ai Giochi di Anversa 1920, titolo poi rivinto a Parigi 4 anni dopo. Con lui lasciavamo a bocca aperta chi ci considerava soltanto attori non protagonisti. Stupore come per la doppietta nel disco a Londra 1948 della coppia Consolini-Tosi. Meraviglia come nei giorni delle fatiche vincenti di artisti del tacco e punta sui 50 chilometri come Dordoni, Helsinki 1952, Pamich, Tokio 1964. Un mondo che spalancò gli occhi per Berruti oro dei 200 con record mondiale a Roma 1960, così come per Mennea a Mosca 1980, così come era stato per Nini Beccali, oro dei 1500 a Los Angeles 1932, o, magari, per Ondina Valla sugli 80 ostacoli a Berlino 1936, la stessa cosa per Gabriella Dorio prima a Los Angeles '84 sui 1500 nei giorni dell'oro sui 10000 di Alberto Cova e di Andrei nel getto del peso.
Luciano Gigliotti, il professor fatica, amante del rugby, occhi elettrici, classe 1934, che ancora oggi si agita se qualcuno associa il concetto di fatica a quello del doping che considera falsa, folle, perché il problema non è il trasporto di ossigeno, ma il consumo di glicogeno, dei serbatoi del tuo organismo li ha portati lì. Lucio che ha sempre sognato di essere un maratoneta e ai pettegoli ricorda che Bordin non prendeva neppure la vitamina C, mentre Baldini prima di Atene ha superato i quattro controlli della federazione mondiale, ripete che rifiuterà sempre di associare il concetto di doping a quello di fatica.
Gelindo Bordin nato a Longare il 2 aprile del 1959 arrivò a Seoul passando dalle corse su terra seguito prima da Dalla Pria e poi Ghedini, arrivò alla maratona nel 1984 vincendo a Milano, ma il salto vero lo fece 2 anni dopo prendendosi l'oro europeo agli europei del 1986, rimuginando sul terzo posto ai mondiali romani dell'anno seguente. Gelindo cabarettista mancato, uomo di ferro che nei lunghi ritiri, insieme a Nazareno Rocchetti, fisioterapista che sussurrava ai cavalli, diventato poi artista del fuoco con le sue sculture, i suoi quadri, riusciva a far dimenticare l'isolamento, gli allenamenti duri. Erano fratelli in arme anche nei giorni dell'Olimpiade coreana, per Nazareno da Filottrano che riusciva a far sorridere anche Mennea, Sara Simeoni, Gabriella Dorio, le fiorettiste Vezzali e Trillini, giorni elettrici mentre Seoul diventava inferno per il 100 maledetto di Ben Johnson e Carl Lewis. Lui c'era quando Gelindo restò in testa dopo la scrematura al 25° chilometro, era con le borracce al vento nell'inferno degli ultimi 5 chilometri quando il keniano Wakiihuri e il gibutiano Ahmed Salah portarono il loro attacco a meno 3 dalla fine, ma ai 1000 metri finali ecco Gelindo e la sua lancia di fuoco che fece schizzare dalla tribuna la nostra ambasciatrice Graziella Simbolotti, genio della diplomazia che era stata già a Città del Messico, Manila, Parigi e Pechino. Bandiera tricolore al vento poi portata in ambasciata per una festa fino alle luci dell'alba dove il geometra Bordin, che è rimasto nell'atletica lavorando per la Diadora, promise altre meraviglie e infatti rivinse l'europeo nel 1990 e trionfò in 2 ore 8'19 nella maratona di Boston che mai aveva visto un campione olimpico prendersi quella borsa sontuosa.
Stefano Baldini, nato a Castelnuovo di Sotto, Reggio Emilia, il 25 maggio del 1971, nell'azienda agricola che Tonino e Maria, i suoi genitori, ottavo di undici figli (6 maschi 5 femmine) avevano inventato per produrre latte che ancora oggi serve il consorzio del parmigiano reggiano. Diploma all'istituto tecnico di Guastalla, poliziotto di leva nel 1991 corre per le Fiamme Oro, ma un anno dopo entra alla Corradini Calcestruzzi nel settore amministrativo e ci resta fino al 2001 perché in quel mondo aveva capito di poter fare la cosa che amava di più: correre, fare sport.
In pista soffriva, ma poi allungando le distanze, 13 titoli italiani fra 10mila e mezza maratona, andando su strada, professionista nell'anima, ma angelo dal cuore limpido in ogni momento della sua crescita, ecco il primo titolo mondiale di mezza maratona a Palma di Maiorca nel 1996, quello europeo di Budapest nel 1996. Ripassatina al motore in pista, con polemiche, come dice lui che voleva richiamare l'attenzione sul mondo della fatica, quarto nel 2002 a Monaco sui 10000, la mossa giusta per risvegliare muscoli che reagivano male agli attacchi degli africani nelle maratone che aveva scoperto con i tre fratelli maggiori.
Ad Atene l'apoteosi facendoci piangere e sospirare nella battaglia finale, con record sul percorso storico da Maratona allo stadio ateniese di 2 ore 10'55, lasciando a 34 lo statunitense Keflezighi e ad oltre un minuto il brasiliano Vanderlei da Lima che era ancora in testa al 36° chilometro, già in debito di energie, era stato bloccato da un fanatico irlandese, un prete. Sull'episodio Stefano è sempre stato leale: non sapeva, intuiva, ma le gambe giravano bene e la sua caccia lo aveva portato oltre.
Da quel giorno pensieri, parole, commenta spesso l'atletica in Tv per Sky, lavoro per l'atletica, i giovani, una costruzione paziente di cui oggi si vede qualche bel risultato, l'amarezza di averli lasciati al momento del raccolto. Un distacco da cavaliere. Un passo di lato come sanno fare i campioni veri.
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