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Calcio e San Valentino: quando l'amore è solo per una maglia

Il 14 febbraio è la festa degli innamorati e l'occasione per ricordare alcune delle più belle storie d'amore del calcio italiano. Tra passato e presente, fra Juventus, Milan e Inter, ecco le storie di Gaetano Scirea, Gianni Rivera e Giuseppe Bergomi

Calcio e San Valentino: quando l'amore è solo per una maglia

Il 14 febbraio è la festa degli innamorati. San Valentino, il giorno e la notte in cui ci si promette amore eterno. Ma chi ama il calcio conosce bene il detto popolare secondo cui "si può cambiare moglie, ma non la squadra di calcio". Massima che ormai vale più per i tifosi che per i giocatori, schegge impazzite di un calciomercato che ai grandi protagonisti del circo pallonaro non dà neppure il tempo di comprare l'anello, figuriamoci metterlo al dito. Oggi i "calciattori" vivono con le valige pronte, sempre a caccia di un contratto più ricco di bonus, frizzi e lazzi. Un tempo, però, non era così. La storia del calcio italiano è ricca di giocatori che hanno fatto giuramento di fedeltà alla stessa squadra. Mantenendolo. Ne abbiamo scelto uno per ognuna delle tre regine del calcio italiano: Juventus, Milan e Inter. Per dimenticare Icardi e il veleno che si porta dietro. Perché pallone fa rima con amore.

L'amore elegante di Gaetano Scirea

"Era un uomo. Questo ancora oggi mi colpisce quando ripenso a quel ragazzo che arrivava dall'Atalanta, un tipo taciturno, buonissimo". Basterebbero queste parole, scritte dal mitico Dino Zoff, per definire la grandezza tecnica e umana di Gaetano Scirea. Il "Gai", come lo chiamavano gli amici. Un soprannome sobrio, lontano dai toni tonitruanti usati di solito per etichettare i campioni. Perché Scirea (1953-1989) era così: sobrio, misurato, signorile. Un leader silenzioso, a cui bastava uno sguardo per farsi capire. Merito dell'educazione ricevuta dai suoi genitori, papà siciliano e mamma lombarda. Da ragazzo, quando militava nel già florido vivaio dell'Atalanta, Scirea era un'aletta tecnica e guizzante. Solo in un secondo momento, la sua consacrazione come libero.

Alla Juventus, naturalmente, dove arrivò appena maggiorenne per sostituire un certo Sandro Salvatore. Gaetano aveva appena 21 anni. Un fresco maggiorenne - eh sì, a quei tempi a 18 anni non si era considerati ancora maturi - che poteva fare la fine di tanti altri, schiacchiati dal peso della pressione e della responsabilità di indossare la maglia della Vecchia Signora. Ma Scirea, 28 presenze alla sua prima stagione in bianconero, aveva le spalle larghe. E nessun timore reverenziale. Al contrario, si esaltava. Nel successivi 10 anni, avrebbe saltato solo 3 partite di campionato. 297 presenze in 10 stagioni, niente male per un difensore con piedi da centrocampista e fiuto del gol da trequartista. Tante le reti segnate in Serie A con indosso i colori della Juventus: 24, 32 se si considerano tutte le competizioni in 554 presenze. Per un palmarès da urlo: 7 scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Supercoppa Uefa, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Coppa dei Campioni a cui, conoscendolo, avrebbe fatto volentieri a meno: quella vinta all'Heysel e costata la vita a 39 tifosi della Juventus.

E poi i Mondiali di Spagna, conquistati da leader ma non da capitano. A guidare la squadra era il suo migliore amico, Dino Zoff. Un friulano di ferro che di Scirea è stato migliore amico e compagno di stanza. Anche a Madrid, quello straordinario 11 luglio in cui decine di migliaia di persone impazzite, compresi la maggior parte dei giocatori dell'Italia di Bearzot, si abbandonarono in una serata di bagordi e gozzoviglie. Dino e Gaetano, invece, si ritirarono di nascosto nel loro albergo per fumarsi in santa pace una sigaretta, lontano da donne e alcool. Ha detto Zoff: "Cosa mi manca di lui? Il suo silenzio". Scirea: la Juve che piace a tutti.

L'amore "di velluto" di Gianni Rivera

Bello, colto, intelligente. Con un talento calcistico senza eguali, tanto da essere stato il primo giocatore italiano a conquistare il Pallone d'Oro. Quando a 14 anni il piccolo Gianni Rivera esordì con l'Alessandria nell'amichevole contro gli svedesi dell'Aik, il tecnico mandrogno Franco Pedroni capì una volta per tutte di trovarsi tra le mani un piccolo fenomeno. Termine abusato, ma che calza a pennello per descrivere l'uomo-simbolo del grande Milan degli anni '60. Quando si affacciò a neppure 16 anni nella prima squadra dell'Alessandria, in Serie A, i soprannomi coniati per definirlo erano "Cosino" e "Signorino". Poco tempo dopo, con la sua esplosione nel Milan di Nereo "Rock" Rocco, di nomignoli ne sarebbero stati sfornati altri: "Golden Boy", certamente, ma soprattutto "L'Abatino".

Etichetta che Gianni, il secondo divo del calcio milanese dopo l'inarrivabile "Balilla" Giuseppe Meazza, avrebbe voluto staccarsi di dosso a morsi. Era stato Gianni Brera, il padre del giornalismo sportivo italiano, ad appiccicargli quel maledetto soprannome. "È uno stilista che non sa correre. Non è un podista, altrimenti sarebbe un grande interno. È un mezzo grande giocatore". Con Brera i rapporti erano pessimi, così come con la maggior parte della stampa e della classe arbitrale. In un'epoca dove tutti i calciatori erano di estrazione sociale modesta e fondamentalmente incolti, Rivera era l'unico a parlare un italiano perfetto e un vocabolario forbito e fornito di osservazioni acute e di una lingua biforcuta. Come quella volta, era il marzo 1972, che fece pesantissime insinuazioni sul direttore di gara Giulio Campanati. Il risultato? Polemiche e tre mesi e mezzo di squalifica.

Ma Rivera, che nella sua seconda vita si sarebbe "riciclato" prima come vicepresidente del Milan e poi come parlamentare europeo e sottosegretario alla Difesa, era soprattutto un calciatore. E che calciatore. Tocco di palla, dribbling, visione di gioco, finezza tecnica. E gol, tanti gol, 17 solo nella stagione 1972/1973. Capocannoniere con Pulici e Savoldi. Lui che era un centrocampista... E poi 3 scudetti, 4 Coppe Italia, 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Intercontinentale e 1 Campionato europeo. Niente Mondiale, però, sfumato sul più bello dopo essere salito sul palcoscenico dell'Azteca, nell'indimenticabile 4-3 con la Germania dove in pochi giri di lancette passò dal beccarsi gli insulti di Albertosi per un errore di valutazione a confezionare la rete più bella, quella decisiva.

L'amore "da zio" di Giuseppe Bergomi

I ventenni lo conoscono soltanto come commentatore tecnico di Sky. Chi ha i capelli bianchi, invece, lo ricorda ragazzino e con un paio di vistosissimi baffi neri scendere in campo nel secondo tempo di una delle partite più belle della storia della nazionale italiana. Era il 5 luglio 1982 e gli azzurri di Bearzot affrontavano il Brasile di Zico e Socrates vestendo i panni della vittima sacrificale. Non fu così, grazie anche alla solida marcatura sui muscoli d'ebano di Serginho dello "zio", copyright di Giampiero Marini. In quei Mondiali, complice l'infortunio di Collovati, Giuseppe Bergomi (per tutti "Beppe") non sarebbe più uscito dal campo. Una vita nell'Inter: 757 presenze e 24 gol in 19 stagioni, tra il 1980 e il 1999. Una bandiera di colore nerazzurro che, racconta qualcuno, poteva tingersi di rossonero. Nato e cresciuto a Settala, una manciata di chilometri da Milano, da giovane Bergomi fece un doppio provino per il Diavolo. Fu scartato, ufficialmente per "reumatismi nel sangue", un disturbo infiammatorio che convinse lo staff medico rossonero a bloccarne l'acquisto. Non quello dell'Inter, che a 16 anni fece bingo aprendogli le porte del suo settore giovanile.

Come era già successo circa 50 anni prima a "Bepin" Meazza, scoperto durante un allenamento dall'indimenticato Arpad Weisz, nel 1979 fu il tecnico della prima squadra nerazzurra Eugenio Bersellini a innamorarsi del talento che si celava dietro al baffone di Bergomi. Fu proprio Bersellini a farlo esordire in prima squadra a 16 anni e un mese in un match off limits per i cuori tremebondi: il derby d'Italia contro la Juventus, non in campionato ma in Coppa Italia (0-0). Non ci volle molto a capire che il ragazzo era speciale. L'anno dopo approfittò delle defezioni di Canuti e Oriali per debuttare in Serie A. Si ispirava a Gentile, era uno stopper vecchio stampo dal fisico robusto e atletico: preciso come un orologio in marcatura e abile nel gioco aereo e nell'anticipo sull'attaccante. Insomma, un predestinato.

Divenne presto uomo simbolo, capitano, leader nerazzurro dentro e fuori dal campo. Il suo palmarès avrebbe potuto essere più ricco: 1 scudetto, 1 Coppa Italia, 1 Supercoppa italiana, 3 Coppe Uefa. E poi il Mondiale, certo, come scordarlo. In nazionale si è tolto altre soddisfazioni, sfiorando il bis a Italia '90 e tornando in azzurro ai Mondiali di Francia '98 dopo il periodo di Sacchi c.t. Ad Arrigo il baffo di Bergomi non piaceva: troppo identificato con un calcio ormai sorpassato, con liberi, mezzali e catenaccio. Balle. Nella seconda metà degli anni Novanta Bergomi ha saputo adeguarsi con ottimi risultati alle nuove mode tattiche, diventando un modello di longevità. Fino al 1998, quando i dissidi con Lippi gli hanno fatto dire addio al calcio. Anzi, arrivederci.

Per informazioni chiedere a Sky.

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