La Juventus è campione d'autunno. Le mancava soltanto questo. Non ha dovuto attendere l'inverno, dunque il ventuno di dicembre, ha provveduto a chiudere la pratica con qualche giorno di anticipo. Paradosso per spiegare lo strapotere bianconero che ribadisce i risultati incredibili dell'ultimo quinquennio. Il campionato non è finito ma sfinito dalla ferocia della squadra di Allegri, ferocia fisica più che tattica, ribadita nella sfida con la Roma, là dove la differenza è stata segnata proprio dal senso di forza, psicologica e fisica, dei campioni mentre di fronte le chiacchiere di giorni, settimane e mesi si sono sciolte nel nulla, nella resa, nella sconfitta. Non c'era bisogno della prova tv per capire che la Juventus fosse la migliore del gruppo ma la stessa Juventus sta facendo meglio di se stessa, tornando a una forma antica e vincente di grammatica calcistica, moltissima sostanza e la forma quando serve. Non certo una squadra di bellezza e spettacolo ma questi due sostantivi non risultano presenti sugli almanacchi, di qualunque sport. Contano i fatti, contano i punti, i gol e, infine, le vittorie e quando se ne assommano venticinque nelle partite giocate allo Juventus stadium allora qualcosa, oltre al record, significa. Significa che la serie A è bipolare: da una parte la Juventus che si allena per la champions, dall'altra il resto delle partecipanti in coda per un posto in prima fila davanti al palcoscenico occupato dai campioni. C'è un gran vociare in platea e spesso confonde le idee.
La Roma avrebbe un'opzione di prenotazione ma spesso si avvita attorno alle prediche del suo allenatore che anche a Torino ha dimostrato di essere di temperatura diversa dal gruppo che gestisce, bastava osservare, nei minuti finali, il suo sguardo fisso, da museo delle cere, mentre, cinque metri più in là, il suo collega vincente, dava di matto con i suoi (Cuadrado e Khedira) improvvisamente paurosi e impauriti. Lo stesso Spalletti ha ammesso di avere perso contro una squadra di cannibali che aggredivano comunque l'avversario. Qualunque riferimento alle cavalcate di Mandzukic di contro al passo sulle uova di Dzeko, era puramente voluto.
Mentre la chiesa della Roma torna nella periferia del villaggio (quella della chiesa rimessa al centro del villaggio fu una delle frasi bibliche del violinista Garcia, altro idolo vanesio, come Zeman, del popolo giallorosso), il Napoli di Sarri sta riprendendo forma e sostanza, non parla più di Higuain e, nell'attesa del recupero di Milik, ha trovato il trio dei bassotti, Mertens-Callejon-Insigne, a garantire qualità e risultati. Restano i limiti dialettici di Sarri che ha deciso, comunque, di esprimersi con un linguaggio volgare, dimenticando il ruolo che occupa e in quale club. Ci sarebbe, alla biglietteria, anche il Milan. Uso il condizionale perché non si sa ancora bene che cosa sia davvero la squadra di Montella, al di là dell'anagrafe freschissima dei suoi migliori. La supercoppa di Doha potrebbe essere l'occasione per la crescita dell'autostima indispensabile. Poi serviranno forze nuove, vere, pesanti e pesanti, per completare un'automobile che, altrimenti, rischierebbe di restare un'utilitaria.
La Lazio e le altre sono nel gruppo che fa la fila e tra queste, là in fondo si appalesa l'Inter che fa i conti con il passato trionfale grazie alla famiglia Moratti e un futuro non del tutto definito e definibile con i nuovi azionisti cinesi che, a pelle, hanno soltanto il senso, prosaico, del possesso e non quello, rispettoso, della proprietà.
Stefano Pioli sembra di passaggio, così come molti dei suoi, ma a volte, nel football, per caso e buona sorte, si trova quello che non si cercava. Quelli della Juventus continuano a cercare anche quello che hanno già trovato.
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