Quasi ce n'eravamo dimenticati. Torino torna a vivere il suo derby, così uguale e così diverso da tutti gli altri, città di margine, per la geografia, ma al centro della storia calcistica nostrana, il Grande Torino, la Signora Juventus, vicende che attraversano i secoli e si riuniscono sabato, primo giorno di dicembre. Il Filadelfia non esiste più, lo hanno sostituito, scappando dalla sterpaglia, con l'Olimpico così chiamato per omaggio ai Giochi invernali che hanno lucidato la città ma sprecato anche impianti e denari in dosi industriali. Il nuovo Filadelfia, sia detto senza bestemmiare ai granata, è lo Juventus Stadium, teatro personale ed esclusivo dei gobbi bianconeri, un unico nel panorama italiano che offre cartoline stracciate, impianti desueti, condomini e larghi vuoti sulle gradinate.
Torino torna ad avere voglia di football, come ai tempi belli delle grandi sfide, contraddistinte dai simboli di generazioni, di personaggi, di allenatori, calciatori, dirigenti. Boniperti resta, di sicuro, l'icona di un tempo che non trascorre. La sua frase slogan legata al derby era sempre la stessa, la risposta che concedeva ai cronisti affamati: «Il derby? bisognerebbe abolirlo!». E invece no, il derby resiste, resiste, resiste, non ci sono più gli sfottò al bar o nelle piole, si va di fumogeni e ultrà ma l'album sabaudo offre figurine vive, i calzettoni alla scagassa di Sivori, il samba di Leo Junior, Billy Salvadore che rivolgendosi alla riserva Vernacchia, durante un tafferuglio vicino alle panchine, gli dice: «Tu, numero 14, stai calmo!», Giagnoni che mette il colbacco sulle corna di un toro tremendo e tremendista, così scriveva Arpino, Cesto Vycpalek che soffre più di altri le maglie granata fumando cento sigarette per quel colore che gli ricorda la sua Boemia antica.
Ci furono derby che si giocavano in due stadi Filadelfia e Comunale, oggi Olimpico e Juventus Stadium, cinquanta anni dopo, unica città ad offrire così l'evento, fatto assolutamente normale in Inghilterra e in Spagna, laddove ognuno è padrone in casa propria e la multiproprietà non ha ragion d'essere tra fazioni e curve opposte. Fu il derby di Nestor Combin con gli occhi pesti di dolore per la morte di Gigi Meroni e la rabbia de la foudre travolse la Juventus di quattro gol. Fu il derby di Bersellini in un respiro brevissimo di minuti, fu la partita di Platini che mise a sedere quattro volte Sabato in due metri, Orfeo Pianelli gigioneggiava con il suo doppiopetto gessato sanguinario, Gianni Agnelli chiamava la squadra avversaria il Talmone, perfidamente ricordando l'abbinamento pubblicitario per crisi contabile del club con la Venchi Unica. Fassino e Chiamparino vengono dalla stessa bottega oscura ma sono divisi dal tifo: l'ex sindaco è granata vero e ha favorito l'affare immobiliare della Juventus; il suo erede attuale è bianconero fino all'osso si potrebbe dire, e si è comportato ugualmente con i colori rivali, la politica resta ai margini ma sventola le bandiere; non si hanno notizie di Fiat, laddove Marchionne non ha fede pallonara e John Elkann non può e non sa ricordare le battute maligne del nonno e dello zio sul Toro e derivati.
Derby della Mole, si usa dire, monumento Antonelliano che sale verso il cielo e conserva dentro di sè il museo del cinema, dunque la memoria di un tempo che è giusto conservare e celebrare, come la partita di pallone che mette di fronte granata e bianconeri, due modi opposti di intendere e vivere.
La grande fetta di meridionali metechi continua a tifare, per riscatto, la Juventus, ma l'hardware è granata, la città sta con il Toro il vecchio cuore, la nostalgia di un grande Toro, Superga, Meroni, quelli che non ci sono più e dovrebbero servire ai giovani per capire che cosa si sono perduti. Si torna a discutere tra rigatini e talmoncini, tra gobbi e sfigati, roba da oratorio rispetto alla guerra civile che agita altre piazze calcistiche.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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