Rio de Janeiro Ci si aspettava il finimondo. Un paese sottosopra, messo a ferro e fuoco da manifestanti anti-coppa e brasiliani in rivolta. Le proteste nate in occasione della Confederation Cup avevano fatto temere il peggio, uno scenario molto símile a quello dell'anno scorso: paralisi del trasporto pubblico, episodi di violenza e atti vandalici più o meno significativi. E in effetti prima che l'arbitro fischiasse l'inizio del Mondiale di Calcio 2014 il Brasile era così: un paese fermo, in balia del caos. Professori, funzionari del trasporto pubblico, studenti, senzatetto e indios, tutti in piazza a chiedere aumenti di stipendio, rispetto del lavoro, istruzione, case e salute pubblica. Poi quando l'esoscheletro robotico ha tirato il calcio di inizio tutto è cambiato. Letteralmente. La piazza si è svuotata, è calato il silenzio. È arrivato il Mondiale. E c'è stato solo quello.
Suona strano oggi per chi, da questa e dall'altra parte di mondo, ha seguito gli scontri avvenuti durante la Coppa delle Confederazioni. Non una partita ha fermato la protesta. Neanche un gol. Oggi è diverso. Nelle poche manifestazioni in corso in questi giorni l'affluenza è scarsa. A fare numero solo le forze dell'ordine in assetto antisommossa. Dov'è finita la gente che protestava?
La scintilla che ha innescato la protesta dell'anno scorso è stato il rincaro del prezzi del biglietto dei mezzi pubblici. La gente è scesa in piazza compatta per manifestare il suo dissenso. Diversi movimenti hanno appoggiato la rivolta fomentando le piazze. Il clima di fuoco aveva costretto il presidente Dilma Roussef a convocare un vertice d'emergenza per studiare misure efficaci a contenere le proteste, il rischio era quello di annullare la Confederation stessa. Oggi la Coppa del Mondo vive un Brasile differente. È il paese che continua a combattere per i suoi diritti fino ad un minuto prima della partita. Poi depone armi e bandiere e si accomoda davanti al televisore. Fino a ieri in piazza sfilavano migliaia di persone per rivendicare i propri diritti, oggi ne restano poche centinaia. «La Coppa del Mondo è diversa dalla Confederation» mi spiega a malincuore uno sparuto gruppo di manifestanti sopravvisuti. «Vale molto di più per un brasiliano. È il calcio per eccellenza. Se il Brasile dovesse essere eliminato prima della fine, allora sì che la gente tornerebbe in piazza». Chissà...
Julio ha 31 anni, è nato e cresciuto a Rocinha, la favela più grande del Sud America. «Ci sono gruppi politici che ispirano le proteste e fomentano le masse in vista delle elezioni politiche di ottobre - confida -. Posso dirlo con certezza perché ci sono passato. Sono sceso in piazza anch'io... poi però in tanti ci siamo accorti che stava diventando pericoloso. La polizia spara, adesso... prima non era così». E in effetti quello che colpisce di più nelle proteste di questi giorni è la sproporzione tra il numero di manifestanti e la task force impiegata preventivamente dal governo brasiliano per gestire e contenere eventuali disordini.
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