In fondo lui è come noi. In realtà noi siamo come lui, l'italiano perfetto (e quindi imperfetto) in tutto quello che rappresenta, che rispetto a noi sa giocare meglio divinamente a tennis, ma che poi guardandosi nello specchio si riflette nell'immagine di un popolo. Fabio Fognini principe di Monte Carlo potrebbe essere un film con Vittorio De Sica o magari con Alberto Sordi, a seconda dei momenti, delle vicende umane e sportive che ci trasformano, lo trasformano, in eroe o in macchietta. Ma che alla fine ci rendono così speciali che nessuno, al mondo, capisce come riusciamo ad esserlo. E per questo ci invidiano.
Fabio, a conoscerlo da vicino, è tutto e il contrario di tutto quel che sembra: impossibile in campo e gentilissimo fuori, oppure a volte l'esatto opposto; un grandissimo talento buttato via eppure straordinario nell'impallinare avversari che sembrano imbattibili; un grande testardo ma anche un grande lavoratore capace di ascoltare i consigli di chi gli sta vicino; uno sempre contro tutti però anche contro i suoi demoni. La Nemesi in persona. Fognini è insomma il Tomba che infilzava tutti sugli sci per poi superare la fila sulle strade sfoderando la paletta da carabiniere, è la Pellegrini che ci fa innamorare bracciata dopo bracciata e che quando esce dalla vasca se la prende con noi perché non abbiamo capito niente, il ValeRossi che tutti vorrebbero avere come fratello tranne quando si nasconde dalle tasse. Quei rovesci della medaglia, dello sport e della vita, dai quali noi prendiamo le distanze a parole, sapendo però che loro appunto sono la nostra faccia da copertina.
Per questo Fabio Fognini alla fine ci ha fatto emozionare, quasi piangere, quando si è nascosto il volto con la maglietta dopo l'ultimo punto del giorno di Pasqua, per nascondere a tutti quello che solo lui pensava di sapere, ma che noi conosciamo benissimo. Ci ha fatto rabbrividire quando si è buttato nelle braccia del suo clan, perché la vittoria più importante di tutte è la vittoria più importante di tutti. Quello lì, lo stesso Fabio che ha giocato sempre dall'altra parte della rete, quello capace di litigare con il padre a bordo campo (anno 2014, proprio a Montecarlo, «Mettici la faccia, io lo sto facendo»), con gli arbitri (l'insulto più celebre è «sei una t...» alla giudice Louize Engzell, New York 2017), con gli avversari (nella storia l'«adesso mi hai rotto le palle» a Nadal, Amburgo 2018), con i giornalisti (a volte e qualche volta, ma non sempre, a ragione), con le racchette (ne ha spaccate a decine), con se stesso appunto. Perché «se avessi la testa sarei da tempo nei primi 10 del mondo».
Eppure se avesse un'altra testa non sarebbe quel Fabio Fognini, cordiale e scherzoso quando non deve parlare di cose di campo, patriota allo stremo delle forze quando gioca con la maglia azzurra addosso in Coppa Davis, marito e padre innamorato (di Flavia e di Federico, chiamato così per ricordare il collega-fratello Luzzi, morto per una leucemia fulminante), pieno di amici che gli vogliono bene e con una famiglia che adora e lo adora; perché l'abbraccio con papà Fulvio il giorno dell'impresa vale più di milioni di parole, e perché dire alla fine di tutto «dedico questo successo a mia mamma che compie gli anni» ci fa sentire tutti figli di Silvana.
Già, la mamma: quella che lo ha fatto diventare così italiano da essere perfetto, e da ieri numero 12 del mondo del tennis. Anche se per noi, ormai, Fabio è un numero uno e lo sarà nonostante tutto. Perché è uno di noi.
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