Berlino - Soltanto in due su un esercito tra catalani e juventini in processione, hanno già vinto. Prim'ancora di presentarsi all'Olympiastadion dinanzi alla coppa dalle grandi orecchie. Sono loro due, Max Allegri e Luis Enrique, i due condottieri delle rispettive armate che stasera si giocheranno la prima finale di Champions league della rispettiva carriera. Hanno già vinto perché uno, stanotte, potrà esibire il triplete così caro a Josè Mourinho, ma l'altro ricorderà a lungo la magnifica cavalcata cominciata tra scetticismo dichiarato e sospetti diffusi. «Spero di essere io a vincere e se dovesse accadere non mi strapperò certo i capelli. In caso contrario il quarto scudetto consecutivo più la decima coppa Italia non si potranno liquidare come un risultato qualunque»: il realismo saggio e scaramantico del livornese non è una posa bensì la consapevolezza di una grande impresa che gli ha reso il sonno leggero e azzerato la tensione. Passare nel giro di 10 anni dalla serie C (Sassuolo) alla finale di Champions può far girare la testa al più disincantato degli uomini, e invece Allegri è proprio così, con una maglietta a maniche corte, il sudore che gli imperla la fronte e le battute una dopo l'altra. «Guardiola dice che se sta bene Messi il Barcellona è imbattibile? Spero non lo sia, altrimenti avremmo fatto una gita diversa» è la sua risposta secca e persino un po' risentita dinanzi a quella raffica di quesiti in spagnolo che ripetono fino alla noia, «Barça favorito, attacco boom boom, Messi immarcabile». È il solito ritornello: «Dobbiamo fare gol perché non finirà 0 a 0, dovremo stare, qualunque cosa accada, 95 minuti dentro la partita, a centrocampo si deciderà la sfida" è la sintesi di Allegri allenatore concreto che non si lascia impressionare dalle cifre della famosa MSN. «Anche loro hanno i punti deboli» è la sua fede trasmessa allo spogliatoio in queste ore vissute col sorriso sulle labbra e con le ginocchia che non fanno giacomo giacomo. E basta far la conta delle finali giocate e perse per capire che son quasi alla pari: 5 su 7 per la Juve, 3 su 7 per il Barcellona. La storia deve pur contare.
Non ronza lo spettro della sconfitta dentro la testa di Allegri o dentro la cabeza di Luis Enrique ("non è la sfida più importante della mia vita") che a Roma, nella Roma gigiona era diventato "Luigi Enrico", quasi un intruso, capace solo "di cambiare formazione ogni domenica" e di perdersi nel rincorrere una grandeur improbabile. «E invece aveva già dato dei valori a quella squadra» l'omaggio al rivale che fu quasi costretto a tornare in Spagna per sfuggire ai tumulti di Trigoria. «Lo so, lui conosce bene il nostro calcio ma una partita secca esclude ogni precedente conoscenza» è la risposta del conte Max che non si è curato nemmeno dei gufi o della sparata di Raiola su Pogba ("sarà la sua ultima partita con la Juve") per far sapere che "nessun disturbo" può distogliere la Juve da questa finale che è una sorpresa, un traguardo conquistato contro ogni pronostico, ma adesso che è qui, in bella mostra sul trespolo di plexigas, dev'essere conquistata. Anche sul conto di Luis Enrique, in Catalogna, avevano previsto sciagure e disastri perché "nessuno sarebbe riuscito a imitare Guardiola" furono i pre-giudizi più eleganti. E invece eccolo arrivare in sala stampa col tatuaggio in vista e un ghigno satanico di chi sa di aver sbaragliato la concorrenza con il famoso Pepp e guidato il Barça a mettere sotto il Real nella Liga e l'Athletic di Bilbao nella coppa del Rey, senza che nessuno gli sia saltato al collo. Messi compreso che non gli è certo fedele.
«Decide Leo? È un grandissimo ma si vince col collettivo» la risposta che non vuole certo essere un mattone in più aggiunto al monumento. Già perché questa è l'ultima anomalia della partita numero 60 della stagione dei catalani invincibili. Dominano in giro per l'Europa senza andare d'amore e d'accordo col capo che siede in panchina.
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