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Heysel, il racconto di una testimone: "Ecco cosa è successo"

Il racconto di chi quella notte dell'85 ha visto morire 39 tifosi italiani in una delle più grandi tragedie della storia del calcio

Heysel, il racconto di una testimone: "Ecco cosa è successo"

Plastica e ovattata, eppure inconfondibile. Per anni quella sera dell'Heysel per me non è stata che una strana serata incollati alla televisione. Avevo sette anni e allora non si usava spiegare molto ai bambini. Mi limitavo perciò a trarre fantasiose conclusioni basate su (pochi) fatti. Vedevo mio padre con gli occhi fissi sullo schermo e mia nonna ripetere: mio Dio. Subito dopo il telefono che non smetteva di suonare. Erano i parenti che volevano sapere. Sentivo nell'aria un certo fervore, ne ero quasi eccitata. C'era in sottofondo un Pizzul agitato commentare con voce sempre più nervosa e giocatori sfilare con facce tristi. Non avevo collegato che mia mamma che a casa non c'era, era proprio lì. Tra quei corpi caduti come per gioco uno addosso all'altro, tra quella gente insanguinata che guardava inebetita le telecamere. Per anni per me quella sera di quasi estate, con i pantaloncini corti e le finestre aperte, è stata certo così strana da sembrare un gioco eccitante. Ero andata a dormire così: sapendo che qualcosa c'era, ma senza sapere davvero cosa aspettarmi. Carica più di incosciente euforia che consapevole preoccupazione. Quella era tutta addosso alla mia famiglia. Mia mamma era partita accettando di organizzare un viaggio, ancora uno, si era detta, come ai vecchi tempi quando appena finiti gli studi accompagnava gruppi. Aveva girato il mondo, e andare a Bruxelles con un gruppo di tifosi allo stadio sembrava una banalità.

E' tornata cambiata per sempre, incapace da allora di stare per più di due minuti in un posto affollato. Niente centri commerciali, niente cinema. Anche al supermercato cerca con lo sguardo le uscite di sicurezza e la folla la terrorizza: "Ti potrebbero schiacciare" ripete come un'ossessione; convinta ancora oggi che solo una mano invisibile l'abbia miracolata quel giorno, fatta scivolare giù, fin sotto alla rete, a quella maledetta transenna di ferro che le impediva ormai di respirare, liberata dal peso di quei corpi pesanti e molli che le cadevano sulla schiena. "Il respiro. Il respiro sempre piu corto di quell'uomo che mi schiacciava e sempre più pesante addosso. E poi eccoli. Li ho visti arrivare con la coda dell'occhio. Con le spranghe i bastoni in mano. Così ho chiuso gli occhi. Credevo che mi avrebbero ammazzata. Sdraiata sotto quei corpi mi hanno creduta morta e me la sono cavata con un calcio". Di quel pomeriggio del giorno dopo ricordo solo poche frasi di mia madre, eppure indelebili. Ero felice di averla a casa e non al lavoro. Era arrivata stanca e arruffata, senza le scarpe ai piedi e con la sua cartellina di stoffa gialla macchiata di rosso stretta in mano. Era tutto in quella cartella, i documenti dell'intero gruppo, i biglietti per il viaggio. Per questo, quando si era accorta di averla persa ha girato per mezzo stadio, con i piedi nudi, e i vestiti sporchi di sangue, scansando corpi privi di vita e poliziotti che le intimavano di uscire. Incosciente, diremmo oggi e qui. Il suo pullman è tornato senza due persone. Trent'anni dopo nell'armadio di mia madre c'e ancora quella valigetta. Nessuno l'ha dimenticata eppure da quel giorno nessuno ha più avuto il coraggio di guardarci dentro.

Resta lì, tutti lo sanno ma nessuno ne ha più parlato.

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