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"Ho 85 anni e questa Inter è senza cuore"

Domani festa per la leggenda nerazzurra che attacca:"La storia non si tocca. Ora il calcio aspetti, non c'è fretta»"

"Ho 85 anni e questa Inter è senza cuore"

Ottantacinque. Non sono nulla per un fuoriclasse. Perché Luis Suarez Miramontes questo è stato, un artista del football con un cervello di seta, campione d'acqua pura, l'unico spagnolo, nella storia del calcio, a conquistare il Pallone d'oro, avendone portati a casa anche due d'argento e uno di bronzo. E oggi questo continua a essere, lucido nei ricordi e nella vita al confino, come tutti gli italiani e i suoi compatrioti galiziani e del resto di Spagna. Un compleanno solitario, insieme con chi lo marca stretto da sempre, l'unica marcatura non sofferta nella sua gloriosa carriera, Valentina, la moglie che incontrò, complice Italo Allodi, non appena mise piede a Milano.
Luis, come è la vita a porte chiuse?
«Non sono mai uscito di casa, cucino, preparo i miei piatti. Certo, mi mancano i crostacei di Galizia ma festeggerò con i piatti dei miei amici Cerea di Bergamo. Per il resto sono, siamo molto prudenti e rispettiamo le disposizioni. Faccio un po' di ginnastica ma non sono mai uscito di casa».
A proposito di porte chiuse.
«Oggi, per il calcio, non ci sono alternative ma ritengo che non si debba giocare, è presto, si deve aspettare, agosto, settembre, magari fare come in Olanda, senza assegnare il titolo. Non è la fine del mondo. I calciatori dovrebbero parlare, per tutelare la loro salute. Come si può pensare a una partita senza contrasti, senza contatti? E a porte chiuse poi. Non è football».
Allora veniamo al football vero. Per esempio Antonio Rumbo Martinez.
«Mi cambiò la carriera. Era il presidente del Deportivo la Coruna. Durante l'intervallo della partita a Santander, eravamo sullo 0 a 0, entrò nello spogliatoio e incominciò a urlarmi addosso. Ero seduto sulla panca, tremavo davanti alle sue parole forti, avevo diciotto anni e non capivo quello sfogo. Otero, il portiere, era anche mio vicino di casa, si alzò e andò incontro al presidente, gli disse di smetterla di strillare contro un ragazzino innocente».
E allora?
«Debuttai contro il Barcellona, ne buscammo 6, normale vista la differenza tra le due squadre. Quando contro di loro o il Real ne prendevi tre, potevi considerarti felice. Gioco una buona partita, quelli del Barcellona incominciano a seguirmi. Trattano Dagoberto Moll, un uruguagio talentuoso, Rumbo Martinez è stracontento di mettermi nel pacchetto, come regalo, per liberarsi di me, senza chiedere una peseta. Lo ringrazio ancora oggi».
Barcellona, Laszlo Kubala, Sandor Kocsis, Zoltan Csibor.
«Kubala era la leggenda. Fu lui a portare le novità dall'Ungheria, imparai la paradinha, quella pausa improvvisa, brevissima ma decisiva, prima del tiro, su rigore o sulle punizioni. I brasiliani ci arrivarono vent'anni dopo. Con gli altri due, e con il portiere Goicolea, ci ritrovavamo al pomeriggio, per allenarci sulle azioni di attacco e sfidarci, con scommesse, sui gol».
Che cosa diceva l'allenatore, l'italiano Puppo?
«Eravamo soli, un divertimento unico, come bambini. Lui non sapeva nulla. Tra l'altro Puppo mi voleva davanti alla difesa e il pubblico de Las Corts, allora lo stadio del Barcellona, mi fischiava perché non andavo mai in avanti».
Toccò poi a Ferenc Plattko, un'altra leggenda ungherese, il successivo allenatore.
«Provò a rinforzare i miei muscoli costringendomi a dare pugni a un punching ball. Stavo in una stanzetta, quattro per quattro, dopo una settimana dissi a Plattko che ero venuto al Barcellona per giocare a football e non per fare boxe».
Poi spuntò Helenio.
«Era di quaranta, cinquant'anni più avanti di tutti. Sapeva tutto, allenamenti intensi ma sempre ognuno con un pallone tra i piedi. Fu lui a portarmi all'Inter».
Bei tempi. Oltre ai tre ungheresi, erano gli anni del Real Madrid, Di Stefano, Gento, Puskas.
«Di Stefano è stato il più grande di sempre. Capace di fare il difensore, il centrocampista e il goleador. Anche più grande di Pelè che ha vinto i mondiali ma Alfredo era più completo, voto dieci su tutto, otto soltanto per il colpo di testa. Tentò di portarmi al Real, mi chiamava galleg», galiziano, ma con affetto».
Gli allenatori cosiddetti moderni dicono che fosse un altro calcio, lento, prevedibile.
«Anche oggi è un altro calcio. Lento il nostro? Jair, Gento, Mazzola erano lenti? Ma gli allenatori che parlano hanno mai giocato contro Di Stefano, contro Puskas? In quel calcio non c'erano cartellini gialli, scattava soltanto l'espulsione ma dopo la battaglia».
Dicono anche che il gioco oggi sia più aggressivo.
«I calciatori oggi sono tipi da palestra ma vi racconto questa: giochiamo a Siviglia, chiedono a Herrera un pronostico. Helenio risponde: Vinciamo senza scendere dal bus. Fu la scintilla, picchiarono come dei fabbri, uno, di cui non ricordo il nome, mi stese da dietro e mi urlò: stavolta ti ho ferito, alla seconda ti ammazzo. Era meno aggressivo?».
Oggi molti muscoli e meno fosforo.
«C'è stato un periodo in cui tutti volevano imitare il calcio olandese, pensando che fosse figlio del lavoro sul fisico. In verità quell'Olanda, quell'Ajax avevano calciatori di grandissima tecnica. Qualcuno abboccò, ora ci siamo un po' ripresi».
A parte il fisico, viaggiano molti soldi.
«Anche il mio passaggio all'Inter portò venticinque milioni di pesetas al Barcellona che stava attraversando una crisi finanziaria pesante, per la costruzione del nuovo stadio e la difficoltà a sbarazzarsi del vecchio. Ma i troppi soldi stanno rovinando i giovani che non comprendono come il calcio sia sacrificio e sofferenza. Pérdono, in molti, la coscienza della realtà. Ripenso a quando andavamo a giocare in parrocchia, nel mio quartiere di pescatori e operai, in avenida Hercules, al numero 20 di Monte Alto a La Coruna, nessuno aveva il pallone, giocavamo con un a palla di stracci, soltanto il prete aveva tutto il necessario, maglie, pantaloncini e pallone. Quando incominciai a giocare con il Deportivo, andavo all'allenamento in tram. A Barcellona mi regalai una Dauphine Renault, poi con Goicolea mettemmo su una fabbrichetta di maglieria. Tutto qui. Prima degli anni d'oro all'Inter».
I migliori anni della sua carriera.
«Ho vinto tutto, tranne il titolo mondiale con la nazionale spagnola. Ogni tanto chiedo a Beppe Bergomi che sapore abbia avuto quella coppa, vinta a Madrid, per lui».
Leggenda in campo e poi consulente di mercato con alcuni colpi illustri.
«Insieme con Mazzola abbiamo portato Pirlo, Seedorf, Frey, Simeone, Zamorano, Silvestre. Ci è sfuggito Ronaldo, il portoghese, che avevo contatto personalmente».
La cessione di Pirlo, l'errore più grande.
«Pirlo aveva molto di me, in campo».
Avrebbe mai immaginato l'Inter in mano ai cinesi?
«Mai e mi dispiace moltissimo. Non sono più affezionato come lo ero e lo sono stato da quando sono arrivato in Italia. Ho sperato in una cordata di imprenditori, milanesi e non, ma quando ho visto il centro sportivo di Appiano Gentile, intitolato ad Angelo Moratti, che porta in lettere grandi, molto grandi, il nome Suning e, in basso, in memoria, addirittura scritta in inglese, di Angelo Moratti allora non sono riuscito a frenare la rabbia. Questi sono venuti per fare soldi, non conoscono altro, non hanno cultura, non conoscono il calcio, possono cancellare quello che vogliono ma la storia dell'Inter e dell'uomo che l'ha fatta grande e che ha voluto quel centro sportivo, non può essere cancellata da nessuno, anche da chi sta cercando di tornare a vincere tutto. Non vado a San Siro da tempo ma non c'è più quel cuore della grande squadra e del grande club».


Resta la leggenda, resta la memoria, restano gli ottantacinque anni di Luis Suarez Miramontes.

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