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I 60 anni di Ben Johnson, l'amato mostro che drogò per sempre il sogno olimpico

Compleanno triste per lo sprinter canadese che a Seul vinse l'oro e lo perse insieme con la faccia nella corsa più sporca di sempre

I 60 anni di Ben Johnson, l'amato mostro che drogò per sempre il sogno olimpico

I momenti di gloria svaniti nel vento appiccicoso di Seul, prendendo a calci la vita e chi alle Olimpiadi coreane teneva in mano le provette che lo condannavano per doping. Nella tormenta di Markhant, a nord di Toronto, Benjamin Sinclair Johnson junior, detto Ben, festeggerà i suoi sessant'anni di lotta per vivere, cambiare la sua esistenza e quella di chi amava, un giorno prima che finisca questo anno orribile che renderà angoscioso ogni brindisi per il 2022.

Ben Johnson potrebbe dire che ora nel suo cielo c'è soltanto cibo pulito, vita sana, amore per gli altri, come nei giorni in cui cercava una luna diversa ai campi Flegrei, vent'anni fa, dopo aver lavorato con e per Maradona, che considerava un perseguitato dal sistema come lui, prima di provare a cambiare la consistenza atletica dei calciatori libici dove c'era anche il figlio di Gheddafi.

Caro Ben incubo della nostra olimpiade coreana, uomo più veloce della terra per un anno e qualche giorno, dal mondiale di Roma 1987 quando in 9 e 83 centesimi battè Carl Lewis il prescelto, per talento, sponsorizzazioni, fino al 978 della finale olimpica chiusa col braccio alzato dopo che la sua partenza a rana aveva lasciato senza saliva Carletto figlio del vento. Lui e gli altri finalisti della corsa che, come poi scrisse nel suo documentato libro Richard Moore del Guardian, deve essere ricordata come quella «più sporca della storia». In effetti era così perché sei degli otto finalisti furono coinvolti in storie di doping, anche Lewis, l'inglese Linford Christie e Calvin Smith che si presero quelle medaglie del sabato senza sole per il ragazzo giamaicano di Falmouth che a 12 anni inseguiva piccioni nei parchi di Toronto per avere qualcosa sulla tavola.

Quei tre giorni divennero inferno per tutti. Da Milano, sede del Giornale, ci svegliò Pierluigi Fadda, una frase lapidaria per buttare nel cestino un pezzo su ogni metro di quella corsa fra giganti in terza e sesta corsia: Johnson dopato! Attaccammo pensando fosse stato soltanto un incubo anche se non avevamo bevuto birra, fatto una sauna, ballato in discoteca come Ben in quella sera di vittoria che per lui era di rivincita su una vita da rifugiato, sempre in fuga, sempre alla ricerca di affetti trovati spesso soltanto per interesse da chi si arricchiva con lui.

Il villaggio giornalisti, però, si stava illuminando. Senza tende la luce arrivava per dire: ehi, roba grossa. Altra telefonata, la conferma, cercando di capire come il tesoro nazionale del Canada, così lo definirono sul Toronto Star, sarebbe uscito dalla scena, come se la sarebbe cavata il suo allenatore Francis che, come il dottor Astaphan, ammisero i peccati del Ben che conosceva lo stanolozolo e altri pasticci del genere fin dal 1982. Il principe de Merode, belga, presidente della commissione medica del CIO, dopo il controllo delle due provette, Johnson ci mise tanto per riempirle, bevendo di tutto, all'1 e 45 del lunedì mattina scrisse una lettera al comitato canadese per annunciare la squalifica. Alle 7 Anne Letheren, capo missione dei canadesi, informò Ben. Nella baraonda continuavamo a credere che il povero dagli occhi luminosi, ma sempre tristi, fosse davvero la vittima, nella speranza che tutto tornasse come al momento del risveglio da Milano. Niente. Alle 3 del mattino del martedì la Letheren tornò da Johnson: «Ben ti amiamo, ma sei colpevole».

Alle 10, mentre il ragazzo di Falmouth veniva esiliato dai Giochi, il CIO, in conferenza stampa, confermò che la finale di quel sabato sarebbe finita sul rogo con l'uomo che doveva lasciare il suo oro al grande nemico Carl Lewis che lo aveva tormentato correndo meglio in batteria e in semifinale, unora e mezza prima che l'uomo con la partenza a rana e scarpe diverse dalle sue lo lasciasse un metro dietro.

Ancora oggi aspettiamo una telefonata per dirci che fu soltanto un incubo.

Non arriverà mai.

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