"Io e O Rei, stesso calcio. La finale del Mondiale ispiri la furba serie A"

L'ex tecnico e il ricordo di Pelé: "Quell'azione davanti alla mia panchina un gioiello..."

"Io e O Rei, stesso calcio. La finale del Mondiale ispiri la furba serie A"

Arrigo Sacchi è tornato dal Qatar, stregato dallo spettacolo della finalissima, in compagnia del covid che l'ha costretto all'isolamento nella sua Fusignano. Niente di grave, solo qualche colpo di tosse, ma è la condizione ideale per inchiodarlo al cellulare e dare il via alla conversazione.

Inevitabile l'incipit: Arrigo, vorremmo partire da Pelé...

«Nel '90, Pelé aveva 50 anni, giocammo a San Siro un'amichevole: da una parte il suo Brasile, dall'altra una rappresentativa chiamata Resto del mondo, in panchina io e Beckenbauer. Nel secondo tempo entrò lui, Pelé. Si muoveva non certo con la velocità di prima ma a un certo punto, passando davanti alla nostra panchina, diede il via a un'azione e andò in area a ricevere il passaggio dopo 4-5 tocchi scegliendo la posizione giusta dove sarebbe arrivato il pallone che poi colpì di testa».

Unico incontro?

«L'altro avvenne nel '93. Mi trovavo in Ecuador a seguire la coppa America e andai tra le Ande, in località punto di incontro. Ero con Ancelotti e il segretario del club Italia Pica. Incrociammo Pelè che mi venne incontro e mi fece: Tu sei l'ultimo allenatore che mi ha battuto, tra 50 anni organizziamo la rivincita».

Fine del racconto?

«No, perché ci rivedemmo nel 2000 agli europei di Olanda e Svizzera. Ero ad Amsterdam per la semifinale con l'Olanda allenata da Rijkaard, finita ai rigori col successo dell'Italia grazie alle parate di Toldo. A fine partita Pelè mi disse: Avete dei buoni calciatori ma non giocate a calcio. Di segno identico la profezia di un tecnico scozzese dell'Uefa: Se in finale dovesse vincere l'Italia, il calcio farebbe una marcia indietro di 20 anni!. Risposi mesto: andiamo bene!».

Del Pelé calciatore invece?

«A 12 anni ho seguito tutto il mondiale in Svezia. A dire il vero avevo visto qualcosa anche nel '54, allora tifavo per l'Ungheria e mia mamma mi rimproverò aspramente. Sono comunisti mi disse. Ma giocano bene risposi io. A Fusignano c'erano solo due televisori: uno dei due fortunati allestì una sala con 30/40 sedie. Ero sempre lì nei giorni delle partite. Da oggi mi rimarrà un ricordo concreto di Pelé».

Quale?

«Nella mostra che organizzai a Fusignano dei miei cimeli ho un pallone che ha fatto il giro del mondo: è andato a Madrid per la firma di Alfredo Di Stefano, è finito in Argentina per quella di Maradona e in Brasile per quella di Pelé».

Quale lezione ha invece ricavato dall'ultimo mondiale?

«Quando dai tutto, puoi considerarti vincitore morale del torneo. Ricordate il '94 come si concluse? Quel gruppo diede tutto e alla fine, negli spogliatoi, dissi solo tre parole: grazie a tutti. Perché eravamo andati oltre le nostre forze. Arrivammo stremati a Pasadena perché nella parte iniziale del torneo invece di finire in California, come avevo suggerito al presidente Matarrese, ci assegnarono la costa di New York con percentuali pazzesche di umidità. Fu il presidente del consiglio dell'epoca, Andreotti, a orientare la scelta pensando così di rendere un favore ai tanti emigrati italiani. In verità durante la prima partita con l'Irlanda perdemmo anche sugli spalti: 60 mila tifosi irlandesi contro 10-20 mila italiani».

Se cogliamo giusto, la finale è stata l'unica luce?

«L'ho detto a Infantino e Ceferin, presidenti di Fifa e Uefa incontrati a Doha: questa finale ha riscattato le mediocrità del mondiale perché è stata esaltante in tutte le sue fasi e ha regalato una quantità industriale di emozioni, giocate superbe, pezzi di bravura, attacchi da una parte e dall'altra. Sembrava un film di Alfred Hitchcock, non finiva mai. Per realizzare uno spettacolo del genere non serve uno bravo ma una squadra».

Da quel giorno è tornato d'attualità il famoso dibattito: meglio Messi o Maradona?

«Sono due grandissimi vissuti in epoche non totalmente diverse. Diego ha avuto più personalità, Leo è stato più gestibile. Quando Maradona mi telefonò per convincermi a lasciare il Milan e accettare il Napoli mi disse: Con me e Careca lei partirebbe sempre da 1 a 0. Risposi: E quando ti infortuni?. Avevo la mia idea: le vittorie stiracchiate finiscono il giorno dopo. E non ho cambiato idea».

Non ha cambiato giudizio nemmeno sul calcio italiano?

«No perché vedo i bilanci dei club appesantiti da deficit che sono la conseguenza di una scelta viziosa: abbandonare la cura dei vivai, puntare sul calciatore già formato pagandolo uno sproposito, pensando che il singolo possa risolvere tutti i problemi. È una questione di cultura che non riguarda solo il calcio. Quando ero al Milan, Berlusconi spese poco perché suggerii calciatori come Angelo Colombo».

Fabio Capello ha detto che il mondiale ha segnato la fine del tiki taka...

«Ma ha visto la finale? Fabio è un allenatore di alto livello ma è un tattico e difende la sua idea di calcio».

Tra qualche giorno torna in campo la serie A dopo una sosta lunghissima: come sarà la ripresa?

«Non lo so dire, non abbiamo precedenti in materia. Penso possa essere diverso rispetto alla prima parte. Per esempio: se il Napoli dovesse tornare rilassato, potrebbe pagare pegno. E sarebbe un dispiacere perché ha mostrato un calcio fatto di bellezza, di emozioni, di collaborazione, di sinergie in cui si vedono solo i pregi e mai difetti. Ha avuto un'ottima idea Spalletti: organizzare amichevoli con squadre straniere perché per quei club non ci sono amichevoli ma partite. Sassuolo-Inter, ad esempio, non ha avuto la stessa intensità».

Tra gli inseguitori, chi può sperare?

«Anche la Juve con un solo interrogativo riferito a quanto incideranno le questioni extra-calcio».

E il Milan?

«Non sempre riesce a essere compatto. E quando non sei compatto lasci dei buchi. Se ti allunghi non sei più squadra. E per essere vicini finisci con lo stare tutti dietro. Una volta il Cesena mi mandò a vedere un centravanti per capire se poteva essere utile da acquistare. Lo vidi giocare da solo in attacco contro una squadra che si difendeva in 10 e nella relazione scrissi: sarà anche bravo ma da solo contro 10 non ce la fa.

Ecco: io non ho fatto grandi cose nella mia carriera ma ho sempre avuto chiaro i valori da mettere in vetrina che sono il merito, la bellezza, le emozioni. Se tagli tutto questo le partite diventano noiose. Nel calcio italiano purtroppo al primo posto ci sono la furbizia e la scorciatoia».

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