L'interismo, orgoglio e senso di dannazione

Nelle ultime 3 eurofinali, il sogno triplete si è trasformato in sconfitte

L'interismo, orgoglio e senso di dannazione
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Bandiere arrotolate e sguardi bassi, quel silenzio che tanto assomiglia a un urlo morto in gola, dopo che tanta aria e speranza era stata messa nei polmoni. Le maglie di Thuram e Calhanoglu piegate da spalle incurvate che tornano verso casa, con il biscione visconteo e la sua grafica anni Ottanta che raccontano bene la selva oscura in cui l'interismo ha dovuto muoversi negli anni. È la pazza Inter divenuta tale per far di necessità virtù, quella che Conte nel suo periodo nerazzurro volle eliminare dai jingle pre partita perché la storia la scrive solo chi vince. La sconfitta dell'Inter non è però quella dei suoi tifosi, sempre oltre i 70mila al Meazza, quelli che Per tutti quei chilometri che ho fatto per te. Poco importa se per una volta sia stata giusto una manciata di fermate sulla metropolitana lilla. Per tutti coloro che non hanno potuto essere a Monaco, l'ombelico del mondo è San Siro. Erano in 50mila, a 500 chilometri esatti dall'Allianz Stadium bavarese, nel mariano quinto mese dell'anno, che avrebbe poi voluto radunare sotto la Madonnina di piazza Duomo anche chi c'era nel maggio 2010, dopo Madrid. Ma alla pazza Inter che sognava il triplete solo a fine aprile, non resta che raccogliere i cocci di una stagione da zeru tituli e tanti sfottò, dopo la semifinale di Coppa Italia nel derby e il risveglio dal sogno più bello.

È semmai un triplete di finali perse, dopo la finale di Istanbul contro il City e l'Europa League '19 che potevano ricordarsi De Vrij, Bastoni, Barella e Lautaro, unici reduci dell'Inter targata Antonio Conte. Proprio l'ex che ha raccolto i frutti delle sbandate interiste del finale di campionato, portando lo scudetto a Napoli all'ultima curva. Nel giorno dell'addio a Ernesto Pellegrini, che i grandi tedeschi li aveva portati al Meazza, bastava forse pensare che Monaco di Baviera non era città dei Rummenigge, dei Matthaus, dei Klinsmann o dei Brehme.

E chi a Monaco non ha potuto andarci, è rimasto a Milano e magari alle 16 con 32 gradi ha raggiunto lo stadio per prendere posto allo stadio, davanti al maxischermo: un marciapiede all'ombra per giocare in difesa contro il caldo, già odore di patatine fritte e salamelle, birra e sudore, magliette sintetiche appiccicate al corpo. Solo parte di quei 50mila di San Siro, nel 2010 avevano atteso l'alba per l'arrivo di Zanetti e Angelo Mario Moratti con la coppa tra le mani, davanti al resto della squadra. C'è chi oggi ha 15 anni di troppo o a quel tempo non poteva esserci perché ne aveva 15 di meno. E sperava che Lautaro fosse Zanetti e Barella, Stankovic. O Sommer, Julio Cesar e Dumfries come Maicon.

Le lacrime di Mourinho furono di gioia, prima di volare a Madrid. Inzaghi non ride e chissà se prenderà posto in business per l'Arabia, con un'offerta economica che non ci starebbe in un bagaglio a mano. L'Inter di allora vedeva in Materazzi l'onda lunga di un Mondiale vinto sempre in Germania, a Berlino, quella di oggi ha nel suo capitano argentino un campione del mondo che sognava il Pallone d'oro e che oggi vede lontanissimo.

Marotta a Moratti assomiglia nell'assonanza, ma anche per il savoir faire, come direbbero a Parigi quelli del Psg. A non essere cambiate sono solo due cose: l'interismo, nonostante i nomi sulle magliette e le bandiere stilizzate dal tempo che passa, e quel dna di pazza Inter. Motivo di orgoglio, ma anche di dannazione.

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