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L'italiano perbene che profanò Wembley

Addio a Brighenti, primo azzurro a segnare nel tempio del calcio inglese

L'italiano perbene che profanò Wembley

Era bella la Modena di don Pietro Cremaschi, sul campo di polvere dell'oratorio dei salesiani, Sergio Brighenti giocava a pallone senza sapere, di certo, dove si trovasse Wembley. Però benissimo conosceva la nazionale azzurra, era il suo sogno. L'Italia era andata due volte a Londra, nel Trentaquattro sul campo dell'Arsenal dove, sconfitta, creò la leggenda dei leoni di Highbury, nel Quarantanove al White Hart Lane, lo stadio del Tottenham, di nuovo battuta. Sergio Brighenti passò dalla ghiaia e sabbia dei salesiani ai prati di calcio vero, Modena, ovviamente, fu la prima scuola ma a vent'anni si presentarono i signori dell'Inter e lo portarono a Milano.

Furono anni di promesse e premesse, il ragazzo segnava gol ma gli garbava anche retrocedere a metà campo, oggi lo avremmo definito un falso nove, passò alla Triestina e poi al Padova, la squadra che Nereo Rocco portò al terzo posto, Sergio Brighenti e Amos Mariani erano gli uomini per la nazionale di Farrari. Il sei maggio del Cinquantanove la squadra si presentò per la prima volta a Wembley. Prima del fischio d'inizio la banda suonò gli inni ma al posto di Mameli eseguì la Marcia Reale, per gli inglesi eravamo ancora sotto i Savoia. In vantaggio con Charlton e poi Bradley, gli inglesi persero Flowers e Brighenti segnò, con un mezzo pallonetto, il primo gol azzurro nel teatro imperiale di Londra, Mariani raddoppiò e fu pareggio.

La storia di Brighenti in nazionale non fu esaltante, nove presenze e due gol, Sergio non godeva di protezioni, anzi. Con la Sampdoria vinse il titolo di cannoniere con 28 gol ma il record gli venne tolto a beneficio di Sivori che usufruì del recupero clamoroso tra Juventus-Inter, realizzando i sei gol che permisero all'argentino di ottenere il premio sportsman e il pallone doro nazionale. Ravano, presidente della Sampdoria, per protesta rassegnò le dimissioni, Umberto Agnelli, presidente federale, rimediò alla furbata consegnando personalmente, al primo raduno azzurro a Coverciano, la statuetta di un chilo e mezzo d'oro al vero vincitore. Brighenti non aveva protettori, giocava a football come all'oratorio di don Pietro, quando segnò quattro gol all'Inter, i signori milanesi fecero sparire dalla circolazione le immagini di quella batosta, lo ricordò lo stesso Sergio con un moto di rabbia e di indignazione, come l'episodio di Sivori-Agnelli e così il boicottaggio nelle convocazioni per i mondiali in Cile, i tre della Sampdoria, Brighenti, Bernasconi e Marocchi vennero tagliati a beneficio dei soliti noti. Fu allenatore a Varese e poi assistente di Vicini nelle nazionali.

Sergio era davvero una brava persona, per questo a novant'anni se ne è andato in silenzio, quasi dimenticato da questo calcio che oggi finge di averne memoria.

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