
Ci sarebbe stato bene nella Spoon River dei figli pugilistici di Duilio Loi. Sandro Lopopolo non era Loi, ma amava Duilio, ne provava entusiasmo vedendolo sul ring, cercò di emularlo nel tipo di boxe. Ma tanto Loi era scintillante, caricava la sua boxe di scatti e improvvisazioni, così Lopopolo era un freddo, lineare e ragionatore, l'intelligenza sul ring faceva velo allo spettacolo ma faceva da argine ai pugni degli avversari. Il sinistro era perfetto. «Se solo riuscissi ad insegnargli che esiste pure il destro, potrei farne un campione», raccontava Steve Klaus, maestro di molti pugili di casa nostra. E campione lo diventò, campione del mondo grazie ad una intuizione di Rino Tommasi, allora organizzatore pugilistico.
Pian piano se ne vanno tutti: dopo Carmelo Bossi, ieri è toccato a Lopopolo, stroncato da un'infezione alle vie respiratorie a metà strada fra i 74 e i 75 anni che avrebbe compiuto il 18 dicembre. Milanese impregnato di milanesità, nonostante le origini pugliesi. Interpretava l'anima un po' bauscia della Milano dei Tumbun e delle compagnie da bar, Milano era la sua tana pugilistica anche se la pelle pallida rispecchiava una boxe anemica che non creava il feeling con le folle. Loi, Garbelli, Lopopolo e Bossi, sembra di sfogliare un meraviglioso libro pugilistico che dovrebbe far compagnia alla memoria e non soltanto alle commemorazioni.
Sandro abitava nelle case popolari, nel quartiere Musocco. In casa circolavano pochi soldi, la famiglia di otto persone viveva in una sorta di scantinato. I vestiti percorrevano la trafila dei fratelli. Lui cominciò a lavorare come fattorino per la rivista Tennis italiano. Faceva le consegne andando su una vecchia bicicletta. E così scoprì il Vigorelli e la palestra dove si allenava Duilio Loi. Scoprì la boxe.
Lopopolo fece parte del fantastico gruppo Italia che raccolse medaglie alle Olimpiadi di Roma 1960. Dopo un bel torneo, arrivò all'argento: battuto, in una finale equilibrata, dal polacco Pazdior. Ma per gli amici di Milano, quelli del Bar Martinelli, il verdetto era ingiusto. Pensarono di regalargli una medaglia coniata in oro, 80 adesioni e medaglia fu. L'esordio da professionista nel mitico teatro Principe di Milano. Lopopolo non perse tempo, Bernardo Favia abbandonò dopo due round. «Visto? Non ho preso un colpo. Sono pronto a combattere di nuovo. Anche domani», raccontò al manager con l'istinto da bauscia.
La carriera lo portò al titolo italiano welters junior nel 1963, alla sconfitta contro lo spagnolo Sombrita per l'europeo e, finalmente, al titolo mondiale che era stato di Duilio Loi. A Roma (29 aprile 1966) ne uscì uno scontro tiratissimo contro Carlos Hernandez, detto Morocho, picchiatore venezuelano. Lopopolo usò scherma e grinta: due giudici lo videro vincente, il terzo pari. Mantenne il mondiale per un anno, lo difese contro Vicente Rivas, lo perse in Giappone contro Paul Fuji, giapponese nato ad Honolulu, che lo investì in una tormenta di pugni, chiusa dopo 2 minuti e 33 secondi del secondo round.
Poi l'ultimo tentativo di conquistare l'europeo in Francia, nel 1972, contro Roger Menetrey. Niente da fare: ko tecnico al 13° round. Il tempo era ormai passato. Ma Lopopolo tornò a combattere per i pugili: fondando il sindacato. La boxe è stato un amore immortale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.