Lorenzo il Magnifico. A Napoli è ancora il tempo delle bandiere

Insigne uomo immagine e capitano del futuro. Come Lodetti e Totti passando per Maldini

Lorenzo il Magnifico. A Napoli è ancora il tempo delle bandiere

Dove sono finite le bandiere del football? In qualche album di figurine, nascosto anche quello in qualche armadio. Lorenzo Insigne è l'ultimo drappo che il Napoli cerca di sventolare tra mille voci straniere. Figlio di una città diversa da se stessa, ogni giorno che il sole sorge sul golfo bellissimo. Calciatore di istinto e di genio ma, come accade con i figli più amati questi si ribellano al primo rimprovero, considerandosi privilegiati, perdonati a prescindere. Insigne ambasciatore del Napoli e di Napoli è un'idea come un'altra di Aurelio De Laurentiis che è uomo di spettacolo e usa l'aria di Napoli, orfana e vedova, nostalgica dei suoi idoli metechi, Maradona, innanzitutto, prima del grande Iscariota Higuain, per dire.

Dunque Lorenzo il Magnifico si avvia, forse, a diventare il capitano verace, ripetendo l'amore, poi tradito, di Ciro Ferrara e di Fabio Cannavaro, scugnizzi di un'epoca comunque mercenaria come quella contemporanea. Francesco Totti siede sul seggiolone più alto e sventola la bandiera più felice del bambino cresciuto gigante, nella stessa città, addirittura nella stessa squadra. Ottavo re, anzi ultimo imperatore di Roma, città, come Napoli, all'inseguimento di una storia smarrita tra romanzi criminali e criminalità vera, insieme con il degrado miserabile. Totti è Er Pupone, dunque, anche per denominazione, il figlio che non diventerà mai adulto anche a quarantuno anni, maturo, padre di famiglia ma bambinone, con il pollice in bocca, come il ciuccio del neonato, a festeggiare il millesimo gol o la provocazione mocciosa e infantile all'avversario.

De Rossi è il suo fratello minore, di età e di censo, Romolo e Remo della Lupa pallonara che allatta altri figli, Florenzi è tra questi, come lo era Bruno Conti, nato a Nettuno ma romano e romanista da sempre, mentre Romagnoli, speranza capitale, se ne è andato a Milano.

Milano significa Paolo Maldini e Giuseppe Bergomi, roba meneghina, milanesi veri, divisi soltanto dalle maglie, simboli anch'essi di un tempo che è ormai difficile riproporre, tanta è la ricerca e la fame di foreign players, di gente estranea alla città, alle abitudini, se non quelle ludiche, notturne, goliardiche.

Non è, questo, sciovinismo angusto, semmai è dato anagrafico, di cronaca e di statistica che potrebbe anche spiegare l'involuzione di un sistema che bada soltanto al denaro e meno alla fedeltà di valori antichi. Il vivaio di qualunque squadra di football è un carrefour multicolore, là dove si parlano più lingue.

Lodetti o Trapattoni, Bagnoli o Parola, Amadei o Gabetto del grande Torino, lo stesso Bettega, appartengono al trapassato remoto, il Milan di oggi conta il milanese De Sciglio, stop, l'Inter cinese nemmeno un cittadino nato nella cerchia dei Navigli, la Juventus presenta Marchisio, ultimo soldato torinese. Altri sono diventati banderuole più che bandiere, venendo dalle periferie, da altre province, altre regioni, innamorandosi, alla fine, della grande città, così Mazzola, così Rivera, così Antognoni. Frontiere aperte e città ristrette, chiuse, fuga di cervelli e di piedi, fosforo e muscoli che hanno scelto e scelgono di andare altrove per trovare gloria.

Resistono, nella loro riserva speciale, gli indiani, metropolitani e non. Ultimi romantici di un calcio che vive di ricordi. E tale resterà, perché le bandiere, quelle vere, autentiche, genuine, si ammainano. Ma non si comprano.

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