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L'ultimo gol di Del Piero è un addio da manuale

Diciannove anni di Juve chiusi con uno scudetto e un gol. Addio tra le lacrime a un campione capace di vivere un sogno. Festa bianconera: FOTO

L'ultimo gol di Del Piero è un addio da manuale

Le lacrime aiutano a far cambiare idea. Non alla Juventus, né ad Alessandro Del Piero. Lui non giocherà più in bianconero. Per questo piangono tutti: i quarantamila spettatori allo stadio di Torino, quelli che guardano la tv e poi lui, Alex. Pensi: adesso vedrai, a fine partita qualcuno dirà che non è vero, che ci sarà ancora un altro anno per lui, gli regaleranno l’ultimo miglio prima di trasformarlo da uomo simbolo a uomo immagine. Glielo devono, dici. La storia non si butta così. «Un capitano, c’è solo un capitano», cantano tutti. E piangono. E applaudono. Diciotto minuti. In campo c’è una partita, però tutti guardano fuori, perché c’è lui e c’è quella domanda: perché? Sì, perché? Alex continua a fare giri di campo camminando e asciugandosi le lacrime. Eccole.

A ogni primo piano su di lui, a ciascuna panoramica sui pianti del pubblico, cominci a capire che stavi sbagliando: eri partito pensando che fosse un’ingiustizia chiudere, invece adesso ti rendi conto che è perfetto. La storia finisce qui: con uno scudetto vinto dopo una vita, dopo essere stato il gancio che ha tenuto su la Juventus finita in B, dopo aver sofferto, dopo aver fatto il record dei record di presenze, dopo essere diventato una statua vivente. Del Piero ha finito il suo giro: 19 anni chiusi con una vittoria, giocando poco eppure essendo decisivo nelle partite fondamentali. Festeggia in uno stadio che ha contribuito a far costruire, facendo gol nell’ultima partita. Così non è neanche un addio. È una magia.

Un anno in più di contratto sarebbe un regalo. E poi? E se la Juve non vincesse? E se lui a 39 anni non riuscisse a fare ciò che ha fatto a 38? Fermate la macchina adesso sì, perché questo è il momento che nessuno riesce a sublimare. Lui l’ha fatto: non potrebbe esistere una fine migliore. E’ vivere un sogno. Non realizzarlo, viverlo. Non ci sono tanti campioni che ce l’hanno fatta. L’addio li ha sempre fatti andare un po’ fuori giri: chi lo fa troppo presto o chi troppo tardi. I tempi sono molto, quando giochi e quando smetti: l’errore di voler resistere agli anni che passano può essere più devastante di un rigore sbagliato. Non è questione di apice, né di vigoria fisica. È l’empatia con la tua gente: se la logori, rovini molto di quello che hai fatto per meritarti l’amore che vedi nelle facce della gente che piange adesso.

La sincronia ha regalato a un campione diverso dagli altri l’opportunità di essere unico anche nella chiusura del cerchio con la sua squadra. Ciao Juve, andrà altrove. Continua sì, ma questa è comunque una fine. Piangono allo Juventus Stadium perché Alex gli mancherà. È giusto: un campione che se ne va ti deve far pensare «eh, quando c’era lui». Succede soltanto se l’addio avviene come questo. Deve finire così, per loro, per lui, per tutti. Il destino che ti fa vincere o ti fa segnare non ti vuol dire di continuare, ma di lasciare. È la porta che si spalanca sulla tua nuova vita: sia un’altra squadra, sia un nuovo ruolo, sia una scrivania, una giacca e una cravatta. Vedi? Vale anche per Inzaghi.

L’ultimo gol all’ultima giornata del suo ultimo anno con il Milan non significa che debba continuare, ma che uno così deve lasciare col massimo. Gol e pianti. Gioia e dolore. L’emozione di un giro di campo nel giorno dell’addio vale quanto uno scudetto vinto. È l’immagine che non si dimentica più. Rimarranno i gol, rimarranno i sorrisi, rimarranno le vittorie. Poi, però, tutti ricorderanno questo giorno.

E non è il più triste.

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