Se ne è andato silenziosamente, per un infarto che l'ha sorpreso nell'Astigiano (da poco più di un mese si era avviato sul percorso della pensione), ad appena 58 anni compiuti il 14 luglio scorso. Del resto Marco Ansaldo, a lungo prima firma della Stampa, non è mai stato di molte parole. Taciturno fin da ragazzo, capace di fulminanti battute d'umorismo, brucianti come il peperoncino che tanto amava, conosceva lo sport (non solo il calcio) e soprattutto lo sapeva spiegare e raccontare, con precisione, gusto, critica, amore. Uno che quello che viene un po' pomposamente chiamato «il virus del giornalismo» l'ha contratto alle superiori e se l'è trascinato lungo tutta la sua vita professionale, dal Corriere dello Sport a Repubblica e - 23 anni fa - alla Stampa , in migliaia chilometri percorsi, valigie disfatte e rifatte. Una mole impressionante di articoli da inviato, lucidi e profondi, scritti con l'aggravante di essere dotato di ottima cultura, sovvertendo una certa idea stereotipata del giornalista sportivo monomaniaco.
Un grande cronista, nell'accezione più elevata del termine. E soprattutto una persona per bene. Di questi tempi, e in molte aziende, non proprio e non sempre considerata una qualità. I suoi figli Alice e Andrea lo sanno. E questo basta.
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