La moto-ciclista belga: «Non era la mia bici...» Cassani: «Da stroncare»

Pier Augusto StagiPer i ciclisti ora il difficile è mettere a punto il motore. Altro che sport di fatica, il vero tormento è non essere scoperti con i watt nel tubo piantone. Dopo anni di tormenti e patemi per il dilagare del doping chimico, eccoci di fronte al primo caso di doping tecnologico. Fino all'altro ieri erano solo sospetti e illazioni giornalistiche. Il Giornale fu tra i primi, il 18 maggio del 2010, a parlarne. Ora, dopo tanti sospetti e molte parole, i fatti: Femke Van den Driessche, una ragazzina belga di soli 19 anni, campionessa europea di ciclocross in carica, è balzata agli onori delle cronache senza onore. Per la storia del ciclismo, lei resterà ad imperitura memoria come la prima atleta fermata per «doping tecnologico»: aveva il motorino nascosto nel tubo piantone.Il fattaccio non accade in una corsa di paese, ma al mondiale di ciclocross a Zolder. Al termine della gara under 23 donne viene controllata la bicicletta. Gli ispettori dell'Uci si sono avvalsi di un sofisticatissimo scanner elettronico, che rileva sia le onde elettromagnetiche, sia le temperature. Se un corridore utilizza il motorino, genera calore e una App lo rivela e lo trasmette ad un tablet. I motorini sono dei piccoli capolavori di microtecnologia che si azionano tramite il cardio oppure col bluetooth. Lei si difende, ma è una difesa che fa acqua: «Non è la mia, ma quella di un amico, identica alla mia bici, e mi è finita in mano a causa di un malinteso di un meccanico».

«Quando lessi su Il Giornale per la prima volta di questi motorini restai perplesso spiega invece il ct Cassani -. Poi entrai in contatto con chi questi motorini li costruiva, e mi dimostrò che tutto era possibile. È un grosso problema, che va soffocato sul nascere».

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