nostro inviato a Londra
Josefa Idem ha pianto. Non dopo aver centrato ancora, di nuovo, incredibile donna, la decima finale della sua interminabile carriera. Ha pianto prima di salire sul suo K1 500 metri, quando ha saputo di Alex Schwazer «e sono scoppiata in lacrime, choccata, come ha potuto? È un lutto per il nostro sport» ha detto. Poi ha detto dell'altro. Su di sé. Col sorriso. «Dopo due stagioni che oserei definire schifose, in cui ho fatto ridere i polli, ero piena di brutti pensieri: e allora ho pensato a Jessica, la Rossi, la ragazzina del tiro che parlava di una vigilia tranquilla... e se ci riesce lei perché non io, mi son detta».
In acqua Josefa ha riso. Nel cuore, nell'animo, coi figli ora grandicelli che l'accompagnano ogni dove, «perché io trovo la concentrazione solo con le persone che amo, perché vinciamo e perdiamo tutti assieme», vivendo in albergo, qui vicino, non al villaggio. Josefa ha sorriso rimontando da paura in semifinale, ha sorriso vincendo e scoppiando di gioia e tensione perché «la mia canoa filava leggera e mi sono sentita una quindicenne e le urla della folla mi hanno trascinato».
Josefa Idem ha pianto e riso. Josefa Idem è una maga per gli amici e una strega per i nemici. Nessuno come lei sa provocare deja vù. Li scatena su chiunque si avvicini a lei con l'intento di ricordarle che a una certa età, suvvia Jo, il rischio che l'atleta passi dal fare i record a far tenerezza diventa grande e alto. Ad Atene 2004, per esempio. Aveva quarant'anni e alla vigilia disse più o meno «io mi gioco le mie carte però le favorite sono altre e però non è detto che dopo i Giochi mi ritiri e però qui potrei fare un miracolo». Anziché limitarsi ad ascoltare le parole, sempre di sfida, per qualunque atleta anche se bollito, avremmo dovuto fissarle gli occhi convinti, spiarle il corpo, le braccia poderose, le gambe toniche, il busto che 100 ne faccio di flessioni e neppure me ne accorgo. Ma Josefa era già la signora Guerrini, nel senso di Guglielmo, il marito allenatore, era già madre di Janek 9 anni allora e Jonas piccolo piccolo. Come avremmo mai potuto puntarla con sguardi indiscreti? Finì a medaglia, finì argento nel suo K1 500 metri, finì che a quarant'anni (li avrebbe compiuti a settembre) era ancora una ragazzina.
A Pechino il secondo deja vù. L'ennesimo di una storia già vista. Prima le parole, le solite, disse più o meno «io mi gioco le mie carte però le favorite sono altre e però non è detto che dopo i Giochi mi ritiri e però qui potrei fare un miracolo». Però i figli erano più grandicelli e c'erano tutti, come qui a Eton, e c'era il marito allenatore sempre più allenatore e sempre più marito che diceva quel che dice oggi, «abbiamo lavorato bene e adesso serve solo preparare nel migliore dei modi l'approccio psicologico alla gara». Impossibile anche a Pechino spiare le forme di Josefa, scrutarla insistentemente, guardare bene i muscoli, il busto, gli addominali, le gambe, non si fa, non sta bene, è una signora, è una mamma. Ci limitammo ad ascoltarla ancora. In fondo senza crederle completamente. Finì argento e fu quasi oro. Di nuovo. Argento che è un passo indietro rispetto all'oro di Sydney, ma un passo in avanti sul bronzo di Atlanta, sul quarto posto di Barcellona, prima Olimpiade da italiana per questa signora nata in Renania Vestfalia.
E adesso basta parole. Adesso è già domani. Prossima partenza, prossimo arrivo. Forse il prossimo deja vù.
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