L a morte, infine. Soltanto la morte è riuscita nell'impresa impossibile di unire il mondo del calcio. Perché Davide Astori non era roba loro, Davide Astori era di tutti noi, di questa tribù che racconta il gioco più bello che diverte e fa soffrire, il teatro dei sogni, della gioia e del tormento, il teatro anche della tragedia. Perché lo sport è una fetta di esistenza spesso trascurato e snobbato da chi non lo ha mai frequentato e non ha voglia di conoscerlo e studiarlo davvero. Di fronte a una foglia strappata via dall'albero della vita, finalmente, stavolta, il calcio non si è voltato dall'altra parte, non si è rifugiato nel solito minuto di silenzio, che ormai silenzio non è più, violentato dal fragore di applausi che andrebbero riservati alla festa e non al cordoglio; il mondo dei presidenti e degli allenatori, dei calciatori e delle istituzioni sportive ha, per fortuna, compreso di non poter più negare almeno il rispetto del dolore altrui.
Al diavolo i denari, i diritti televisivi, il calendario, al diavolo le contestazioni, il Var, l'arbitro incapace, il rigore non fischiato. E' polvere tossica, è letame di fronte allo strazio non soltanto di una famiglia, quella di Davide, ma dei cento compagni dovunque, perché questo calcio così frammentato e fazioso, livido e acido, sa vivere ancora di amicizie forti, di umani rapporti di fratellanza, non soltanto a centrocampo al momento dello scambio dei gagliardetti ma nello stanzone fumante di uno spogliatoio.
In una domenica di altre cose ecco che gli italiani si sono mossi a compassione per un ragazzo di trentuno anni improvvisamente svanito, nella notte, magari sognando la partita del giorno appresso, le ultime indicazioni del mister, le mosse dell'avversario. Davide Astori ha scelto di andarsene senza fare rumore, si dice che questa sia la morte migliore, non c'è sofferenza, passando dal sonno alla fine. Ma non è così per chi resta, spiazzato dall'incomprensibile soluzione finale, gelato dalla notizia e dal pensiero di un futuro di seta che diventa soltanto tulle grigio sporco. Il calcio lo ha capito, il calcio ha dato, una volta per tutte, la dimostrazione di una coscienza che gli avevamo negata, frustandolo nelle occasioni in cui aveva finto il dolore per continuare a giocare, perché lo spettacolo deve andare avanti. Quale spettacolo dinanzi alla tragedia? Quale senso della vita e della dignità può esserci dinanzi a un ragazzo morto in una stanza d'albergo, lontano da tutti e a tutti, improvvisamente, vicinissimo?
Possiamo essere normali, dunque, torniamo a respirare l'aria migliore, maledicendo questa domenica di marzo che ci ha portato via un uomo e un calciatore veri, non un fenomeno in campo ma un fuoriclasse nella vita di tutti i giorni.
Poi, sarà di nuovo pallone, sarà di nuovo l'urlo degli stadi, ieri deserti ma affollati di dolore. Vorrei che Davide Astori venisse celebrato proprio in uno stadio di calcio, là dove ha vissuto i migliori anni e dove la nostra tribù continuerà a ricordarlo.
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