Porte aperte in Serie A. L'Italia del catenaccio si è ritrovata indifesa

Oltre millecento gol segnati: non accadeva dal '51. Decisivi Var, rigori ma soprattutto il calo tecnico

Porte aperte in Serie A. L'Italia del catenaccio si è ritrovata indifesa

Noi Italiani, anarchici ma conservatori come il grande Giuseppe Prezzolini, ci teniamo alle nostre tradizioni. Nel calcio ad esempio, malgrado lo spirito del tempo imponga gioco offensivo, possesso palla e dominio del campo, restiamo idealmente ancorati alla nostra essenza: a Gianni Brera, al «santo catenaccio», ai trionfi nazionali e alle migliori difese che, per citare Max Allegri, hanno (quasi) sempre la meglio.

Oggi però facciamo notizia per i numeri dei nostri attaccanti; in primis Ciro Immobile, che con le sue 36 reti in 37 partite ha conquistato la Scarpa d'oro 2019/2020. Se guardiamo ai maggiori campionati europei, in Premier League il capocannoniere (Jamie Vardy) ha chiuso a 23 gol. In Bundesliga Lewandowski ha fatto terra bruciata con 34 centri stagionali, staccando Timo Werner a 28 e poi lontanissimo Jadon Sancho a 17. Anche nella Liga spagnola solo in due hanno superato i 20 gol: Messi (25) e Benzema (21), non certo gli ultimi arrivati.

Ma allora perché in Italia Ciccio Caputo arriva a 21 reti, e per quale ragione Joao Pedro e una riserva (di extra-lusso) come Muriel chiudono comodamente a 18? Certo l'abuso del VAR, in un delirio di impotenza dell'uomo-arbitro, impiegato della tecnica come direbbe Heidegger, ha toccato vette inesplorate con circa 5 rigori di media a giornata, uno ogni due partite. Secondo i dati Transfermarkt in Germania sono stati assegnati 72 rigori in 306 partite (0,24 per partita), in Inghilterra 80 in 380 (0,21), in Spagna 148 in 380 (0,39) e in Italia ben 187 in 380 (0,49). Sarebbe tuttavia troppo facile ridurre il discorso ai tiri dal dischetto, così come sarebbe semplicistico esaurire la questione con il comportamento dei difensori che, intimoriti dal Grande Fratello, hanno ormai rinunciato alle vecchie e sane maniere forti.

La verità è pure che in Serie A, complice il calo fisico e tecnico generale degli ultimi anni, è diventato fin troppo facile incidere: per giocatori straordinari ma pur sempre a fine carriera, Ibrahimovic e Ribery questa stagione, Quagliarella la scorsa, e anche per calciatori in esubero da campionati più competitivi come la Premier, che trovano nel Belpaese una seconda giovinezza (da Gervinho a Kolarov, da Smalling a Mkhitaryan, passando per Lucas Leiva). Ribaltando il discorso, lo stesso Immobile a livello internazionale ha sempre deluso: con i club 3 gol in 24 gare di Bundesliga, 2 in 8 di Liga , e con la Nazionale, in cui non ha mai convinto a pieno.

Insomma, la patria dei difensori si è ritrovata in balìa del progresso nel pallone, priva di certezze, senza radici. D'altronde si sa, a parole noi Italiani siamo sempre stati esterofili: attratti dalle novità, dalle mode, dall'erba del vicino perennemente più verde. Abbiamo così ceduto ai ritornelli progressisti che vedevano nel difensivismo italiano un ostacolo alla gloriosa marcia del progresso; ci siamo votati alla retorica del calcio-spettacolo, alla costruzione da dietro sempre e comunque, ai difensori bravi a impostare e un po' meno a marcare.

Lo abbiamo fatto, eppure oggi ci mancano terribilmente Scirea, Baresi, Facchetti; e ancora Bergomi e Maldini, Nesta e Cannavaro. Ecco perché forse dovremmo riprendere Gianni Brera e le sue polemiche contro «la stampa benpensante che invoca bel gioco, gioco aperto»: per tornare a difendere, e magari anche a conservare.

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