Il giorno dopo un disastro è il giorno prima di un passo in avanti o di un altro inciampo. La differenza è sottile e il suo spessore dipende da quanto chi comanda avrà fatto tesoro delle macerie sparse tutt'attorno. A mente fredda, il vero grande errore andato in scena domenica non è stato quello, forzatamente condiviso dal team, di Alonso che decide di non fermarsi al pit con l'ala divelta, bensì Alonso stesso che pronti e via finisce nella rete di Vettel alla seconda curva e lo tampona. La Ferrari, statene certi, sta riflettendo sia sul pit sia su come il pilota ha gestito il via. Perché i pasticci combinati con macchina che non va ci stanno, vedi l'anno scorso la partenza esagerata di Alonso in Giappone che gli costò la toccata al via con Raikkonen, ma quelli scodellati con auto missile come la F138 fanno un male cane. In proposito, uno come Flavio Briatore, che cura il management dello spagnolo con cui ha vinto due titoli, l'ha detto chiaro e tondo: «Credo che abbia chiesto lui di stare fuori ma il team doveva chiamarlo dentro. Anche perché vedo la Ferrari molto meglio dell'anno scorso, è competitiva, me la giocherei senza prendere troppi rischi». Parentesi: Briatore ha detto anche di Red Bull e di Vettel e Webber e dell'ordine disatteso: «Manca un manager perché sembra esserlo Vettel. Gli ordini vanno rispettati».
Ma si diceva della Rossa. In casa Ferrari ora c'è rabbia e si farà tesoro del recente pasticcio. A giudicare dalla durezza delle parole a caldo di Domenicali («Un rischio inutile»), forse il peso specifico in seno al team dell'iberico un filo calerà. Nel senso che lo si ascolterà meno. Sul tema, è utile ripercorrere brevemente i tre anni e rotti fin qui trascorsi dall'arrivo del grande asturiano in sella al Cavallino, partendo da una frase che ne riassume il carattere. La disse proprio al Giornale, a Spa nel 2009, due settimane prima di annunciare il passaggio alla Ferrari: «Io sono un rompiballe, non sono uno di quei piloti che fanno la corsa, un paio di test, non vanno mai in fabbrica e quando ci sono hanno già la valigia pronta per tornarsene a casa. No. Io resto in fabbrica fino a che tutto è a posto». A queste parole il Cavallino si mise giustamente a galoppare per l'entusiasmo: erano abituati a uno così, Schumi, e sarebbero andati a nozze con uno cosà come Alonso.
E questo è successo. Maranello sta gestendo un fenomenale talento ma anche un discreto rompiballe. Per due anni e 9 mesi ci sono riusciti, benché il pit stop suicida un altro di Abu Dhabi 2010 veda comunque coinvolto anche Fernando. Ora però, a fronte dell'alonsizzazione imperante (l'addio dell'ottimo Aldo Costa, l'arrivo di Pat Fry, l'arrivo di De la Rosa) si narra di malumori crescenti a vari livelli nel team. Voci, certo, ma pur sempre voci che una volta non c'erano. Tanto più che non è una voce lo scontro fra il pilota e lo stesso Fry in India.
E qui sta forse la vera, unica, grande differenza con la schumacherizzazione gestita dal predecessore di Domenicali, Jean Todt. Uno era tedesco e freddissimo, l'altro è spagnolo e ogni tanto sfocia nei cinque minuti. Uno schumacherizzava sottovoce il team, l'altro ci prova ma poi inciampa in qualche urletto. Per il resto sono uguali. Anche nei pasticci.
POLEmicamente
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