Come un Concetto Lo Bello applicato alla finanza, la Consob ha sempre avuto un occhio severo verso le (poche) società di calcio quotate a Piazza Affari. Negli anni, non ha esitato a esibire più cartellini gialli, soprattutto per gli squilibri di bilancio creati dagli stipendi d'oro assegnati ai nostri pedatori. E, apertamente mal digerita, è sempre stata quella peculiarità connaturata ai club di controbilanciare il cattivo andamento economico con i risultati sportivi. L'ex presidente dell'organo di controllo, Lamberto Cardia, non esitò del resto a bollare nel luglio 2009 come «un errore» l'aver permesso ai team pallonari di varcare la soglia del tempio del capitalismo italiano.
Ma, se mai c'è stato, il peccato d'origine porta la firma di Mario Draghi. Sua, infatti, è la riforma con cui è stato cancellato l'obbligo di avere tre bilanci consecutivi in utile per poter accedere al listino. Così, a dispetto di numeri tutt'altro che esaltanti, prima la Lazio, poi la Roma e infine la Juventus sono approdate in Borsa. La speranza era che il nostro calcio riuscisse, seppur gradualmente, ad avvicinarsi a quello anglosassone, dove 20 società stabilmente impiantate nella City dispongono di stadi propri ed esercitano un controllo assoluto sui ricavi, merchandising compreso. È un modello dal quale si è distanti anni luce: Juve a parte, le romane sono ancora inquiline dell'Olimpico, mentre il taroccamento di magliette, sciarpe, cappellini e gadget assortiti resta un unicum tricolore. Di fatto, un valore economico volubile come la rosa di una squadra è sempre l'asset principale. E le vittorie, o le sconfitte, sono ancora prevalenti nel determinare non solo la classifica, ma proprio la stessa quotazione del titolo. Al pari dei gossip, la cui fioritura esplode in coincidenza col calcio-mercato. Voci e indiscrezioni sono parte ineliminabile delle dinamiche che connotano il periodo delle trattative. Ovvero, quando sulla firma di un contratto, sulla cessione di un portiere o sull'acquisto di un trequartista agiscono così tante variabili da poter deviare il negoziato verso una soluzione imprevista.
In fondo, nel caso specifico, la Consob ha un solo compito: accertare se i rumors (veri o falsi) siano stati messi in circolazione per speculare sul titolo. In assenza di dolo, non c'è colpa. Anche per rispettare quel vecchio adagio di Borsa che così recita: «Compra sulle voci, vendi sulla notizia».
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