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Se l'Italia degli Appenini va in serie B

Sul pullman del Benevento Calcio un paese spopolato

Se l'Italia degli Appenini va in serie B

Tiene banco il pullman del Benevento Calcio in viaggio per Torino, dove i giallorossi sono attesi per la loro ultima partita in serie A contro i granata. Un viaggio di 12 ore a tratta imposto dal presidente della compagine sannita Oreste Vigorito per punire i giocatori per una retrocessione in serie B che, per come è maturata nel girone di ritorno, lascia quasi increduli. Una triste caduta dalla massima serie calcistica molto più frustrante della prima, ottenuta al termine del torneo 2017-2018, che pure conobbe dei sussulti finali di dignità e di lotta e che era in ogni caso il debutto dei giallorossi nella massima serie. Un segnale brutto, perché il calcio è l’oppiaceo di una popolazione, come sempre e ovunque in Italia e nel mondo. Se la vittoria inaspettata è uno straordinario antidepressivo, la sconfitta bruciante è invece il detonatore della consapevolezza dei problemi di sempre. La provincia di Benevento ha perso, dati ISTAT alla mano, 13mila abitanti dal 2011 al 2019, 61mila rispetto al 1951. Praticamente in 8 anni è sparito ogni 12 mesi un paese di 1.625 persone. Il capoluogo Benevento ha perso qualcosa come 3.000 residenti dal 2010 al 2020, con una popolazione che è inesorabilmente scesa sotto i 60mila abitanti. La provincia nel 2020 si è confermata sotto i 280mila abitanti, perdendone oltre 2.000 solo nel periodo compreso tra 2018 e 2019. Un professore innamorato della sua terra e dei suoi compaesani sanniti, Enzo Villani, mi disse qualche tempo fa: “Una volta gli emigranti mandavano i soldi al paese d’origine e ne favorivano lo sviluppo. Oggi siamo noi pensionati che dobbiamo mandare un po’ di soldi ai nostri figli che lavorano fuori. Infatti la morte di un pensionato è una ferita affettiva, ma anche una risorsa economica in meno per comunità che non hanno molto altro”. Il ragionamento mi sembrò eccessivamente crudo, invece coglieva nel segno. Un amico che vive al Nord è tornato qualche giorno fa al paese a trovare i genitori. Mi ha detto una cosa che mi ha colpito molto: “Sta tornando il bosco”. Là per là sono rimasto interdetto, non capivo bene cosa volesse dire. Poi mi ha spiegato: in quel terreno dove c’era qualche vigna di “coda di volpe”, una delle uve a bacca bianca tipiche del massiccio del Taburno Camposauro, ora ci sono sterpaglie e monconi. Lì c’era una casa abitata da una famiglia numerosa che ha preferito trasferirsi in un centro più grande. Durante il giorno per strada non s’incontra quasi nessuno, e il coronavirus c’entra poco. È una situazione che si verificava già prima della pandemia. E un po’ tutte le valli sannite se la vedono grigia. La zona del Fortore, qualcuno ha lanciato l’allarme, rischia in un futuro non troppo lontano di diventare un grande museo antropologico a cielo aperto: Castelvetere e Montefalcone hanno fatto segnare importanti emorragie demografiche. La valle del Tammaro non se la passa meglio, resistono un po’ la Caudina (attraversata dalla Statale Appia) e la Telesina (Telese e le sue terme sono ancora importanti per il territorio). In diversi paesi spesso resta solo il bar come centro sociale attivo e vivo; ma molti al mattino preferiscono lasciare la porta chiusa, perché le strade deserte o con pochissimi passanti lasciano una sensazione d’inquietudine nei gestori e nei titolari. Al di là dei numeri, basta scorrere mentalmente un elenco con una decina di amici e conoscenti: si scoprirebbe che 2 o 3 al massimo sono rimasti laddove sono nati. Gli altri tutti via, lontano, a cercare un futuro migliore. E l’economia? Certo, a Benevento c’è l’importante area industriale di Ponte Valentino, una cinquantina di aziende tra meccanica e agroalimentare. Certo, le 35.700 imprese attive nel Sannio (studio Confindustria di gennaio 2020) ne fanno uno dei territori con il più alto tasso d’imprenditorialità in Italia. Ma il quadro complessivo, con una popolazione sempre più anziana e con i giovani che appena possono emigrano, non può essere confortante. Soprattutto per spingere la manifattura, le produzioni agroalimentari e il commercio, cioè i settori che trainano l’economia sannita. Per andare in treno da Benevento a Napoli con un convoglio diretto, senza cambi, ci sono 4 possibilità nell’arco della giornata: quasi 2 ore per percorrere meno di 70 chilometri. E se si entra nella giostra dei cambi i tempi di percorrenza superano tranquillamente le 2 ore. Non è solo questione di Benevento e del Sannio. L’entroterra della provincia di Foggia non è messo meglio, il vicino Molise soffre importanti carenze infrastrutturali, l’Irpinia idem. E se si allarga il discorso si potrà notare una volta di più che c’è un’Italia di Appennini (ma anche di Alpi: basti ricordare com’è stata derubricata a vezzo per ricchi la questione delle stazioni sciistiche chiuse), di zone interne, di paesi e comunità con tantissimi capelli bianchi e pochi capelli scuri, di cartelli ingialliti “vendesi” o “affittasi” su tante case ed esercizi commerciali, di strade desertificate come da un permanente ma inesistente lockdown, di resistenza quotidiana a quello che appare un destino segnato. Scomparsa di comunità, di tradizioni, di presìdi territoriali, di dialetti, di usanze, di sapori e di testimonianze. Forse sul pullman del Benevento Calcio c’è anche un po’ di questa Italia. Che certifica una volta di più, soprattutto dopo la crisi economica da coronavirus, la propria amara retrocessione. Scritta nell’anagrafe, nelle culle vuote, nelle valigie pronte, nei pacchi pieni di leccornie inviati nel Nord Italia.

E senza nemmeno la possibilità di rivedere tutto al VAR.

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