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Trent'anni di Jugoslavia sotto la Madonnina

Nel marzo 1991 i balcani iniziarono a sgretolarsi. E i club di Milano...

Trent'anni di Jugoslavia sotto la Madonnina

Contro la Danimarca, il gol di Jean Pierre Papin non basta alla Francia per evitare la sconfitta. L'attaccante francese di lì a poco sarebbe arrivato al Milan e avrebbe adottato la numero 11. E 11 anni ha Zlatan Ibrahimovic, che quella maglia la erediterà tre decenni dopo, ma che quel giorno del giugno 1992, nella sua Malmoe vede i cugini danesi battere la Francia e involarsi verso il loro primo titolo continentale. E dire che la Danimarca, a Euro 92, neanche doveva esserci: il biglietto se l'è ritrovato in tasca dopo l'implosione della Jugoslavia, che la qualificazione sul campo se l'era sudata.

Dopo il referendum dell'indipendenza slovena, nella primavera del 1991, la Croazia vota per la secessione. Un passaggio che gli storici, a 30 anni di distanza, indicano come cruciale nel conflitto che si porterà via 100mila vittime. Croati, bosniaci, sloveni, serbi, macedoni, montenegrini e kosovari si trovano in breve uno contro l'altro. Il calcio, per ultimo, ammaina la bandiera di un territorio che non c'è più. A Bari, la Stella Rossa di Belgrado schiera giocatori di 5 delle 7 repubbliche che saranno, e con i futuri meneghini Dejan Savicevic, Darko Pancev, Vladimir Jugovic e Sinisa Mihajlovic vince la Coppa Campioni del 91, battendo in finale l'Olympique Marsiglia proprio di Papin. E il massimo trofeo continentale per club prende casa in una nazione che si sgretola. In quei giorni il difficile è portare a casa la pelle, c'è poco da filosofeggiare con Dostoevskij, che pure aveva detto «la felicità si acquista attraverso il dolore».

A tre decadi di distanza, sull'altra sponda dell'Adriatico, la storia calcistica dice che il tempo s'è preso la rivincita. Nella classifica milanocentrica della serie A, la vita si vive sotto la Madonnina e ai piedi di Inter e Milan. I rossoneri con le speranze di restare vicini alla vetta che pendono anche dai piedi del bosniaco Rade Krunic e dei croati Ante Rebic e Mario Mandzukic, in attesa di nuovi acuti di Ibrahimovic, dopo la parentesi sanremese. I nerazzurri, invece, con lo sloveno Samir Handanovic e il figlio di Serbia Filip Stankovic a rubargli il mestiere. Ma anche con il serbo Alekasandar Kolarov e, soprattutto, i croati Marcelo Brozovic e Ivan Perisic. Proprio l'esterno condensa in sé incostanza e talento associati alla scuola slava non solo dai luoghi comuni. Perisic è al tempo stesso epigone e nemesi di un calcio che arriva a perdere la finale Mondiale nel 2018. Perisic, scartato dall'Inter, vince il triplete con il Bayern Monaco, prima di far ritorno a Milano, riscattando con i fatti il fatalismo del morire nella bellezza che ha sempre giustificato le sconfitte della cultura calcistica jugoslava. Ci sono i risultati, ora, a dire che quella scuola insegna a vincere.

E la Milano che sogna in grande ne è l'esempio ultimo.

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