È il più giovane tennista italiano di sempre. Al massimo il secondo, se capita. E a fare cose, tipo: arrivare in semifinale in un torneo ATP, oppure qualificarsi per il tabellone principale di un Master 1000. O, ancora, a finire la stagione nei primi 100 del mondo, dopo essersi pure giocato un primo turno in uno Slam (e solo qui è arrivato secondo). Insomma: il Predestinato ha ancora la faccia da bambino, ma pensa solo in grande. In questi giorni è a Milano per giocarsi le finali di stagione dei Next Gen, gli Under 23 della racchetta. E quando ti si siede davanti per l'intervista nello store Lavazza di cui è pure diventato brand ambassador (dopo uno come André Agassi, per dire), capisci che non è solo l'età a costruire un campione, nello sport. Certe cose le leggi negli occhi. Che brillano.
Jannik Sinner è un italiano con una testa tutta sua, lo ripete con forza, per sfatare miti e stereotipi. Diciotto anni compiuti il 16 agosto, è nato a San Candido e viene da Sesto Pusterla. I suoi genitori si chiamano Siglinde e Hanspeter: Alto Adige in pratica. Da quelle parti Sudtirol. Doveva diventare uno sciatore, ma come sempre alla fine ha fatto la sua scelta: «E di questo devo ringraziare mamma e papà». Perché non è vero che come molti pensano - Jannik abbia la testa tedesca e il cuore un po' più a sud: «Io sono io e basta. E poi da quando vivo a Bordighera per allenarmi mi sento italianissimo. Ancor di più». Tranne per il fatto che non gli piace il calcio.
Lavori con Riccardo Piatti, che parla di 3-4 anni per portarti al top. Tu, invece...
«Credo molto in me stesso, ma mi fido molto di lui e del mio team. È importantissimo avere le persone giuste attorno. La serenità aiuta la crescita».
«Diventerò numero 1 al mondo». Molti lo sognano, tu invece lo dici.
«Non ho paura a espormi. E non è presunzione. Quando hai intorno le persone giuste sai che puoi mettere a frutto il tuo carattere. Il mio è di cercare di ottenere quello che voglio».
Niente dubbi?
«Io so che il potenziale c'è. E Riccardo ci crede: lui di campioni ne ha visti e allenati tanti. Certo, devo impegnarmi a migliorare».
In che cosa per esempio?
«In tutti i colpi: servizio e diritto di più».
Quando sei in campo sembri già grande.
«Cerco di mettere a frutto gli insegnamenti del mio team, ma le scelte le faccio con la mia testa. Se sbaglio, cerco di capire da solo perché. Guardo poco il mio angolo. Poi, ovvio, a fine partita mi confronto con loro. E imparo».
Anche dalle sconfitte?
«Soprattutto. Tra le mie partite migliori metto al primo posto il ko in quattro set con Wawrinka al primo turno degli Us Open. È stato un test per capire a che punto fossi. E ho giocato bene».
Cosa ti ha insegnato?
«Che i giocatori d'alto livello sanno gestire meglio le partite. Lui aveva contro uno che neanche conosceva, magari si aspettava meno da me, chi può dirlo. Eppure sapeva sempre cosa fare. Mi ha stupito che loro non mollano mai un punto».
Le vittorie, invece?
«Danno fiducia. Quando ho battuto Monfils ad Anversa ho capito dove posso arrivare».
E qui il team aiuta.
«Che tu vinca o perda, in ogni match ci sono cose positive. Magari tu non te ne accorgi, l'esperienza di chi è con te serve per quello. Riccardo ne ha da vendere, ed anche con Andrea Volpini, con cui giro il circuito, abbiamo un feeling speciale».
Sei un predestinato.
«Non mi pesa, non leggo quel che dicono. Però lo so, lo sento. Devo saperlo gestire».
L'importante è avere testa.
«Quella è l'unica cosa che puoi controllare. Tante volte non controlli i tuoi colpi, oppure l'avversario. Ma la testa è sempre con te».
In questo, forse, sei davvero un po' tedesco.
«Guarda: né tedesco, né italiano. Sono io e basta. È qualcosa che arriva dalla mia famiglia, così come la cultura del lavoro. Mio papà fa il cuoco e mia mamma lavora come cameriera nello stesso rifugio. Ancora oggi».
Non ti seguono?
«Sì, certo, ma da lì. Quand'ero piccolo magari telefonavo dopo una sconfitta e mia mamma a volte rispondeva: «Non chiamarmi adesso, sto lavorando!». Questo insegna a mettere l'impegno davanti a tutto. Loro sono un esempio per me. E quella testa lì non è da tedesco, è da Sinner».
Anche Matteo Berrettini può essere un esempio?
«All'inizio dell'anno non lo conoscevo neanche, poi ho imparato ad apprezzarlo. Mi piace molto, e non solo come gioca. Ma come persona: si vede l'armonia che c'è nel suo team, la sua cultura del lavoro. È un punto di riferimento».
A proposito: hai sempre detto che il tuo è Federer. Che ha 20 anni più di te ed è ancora lì in alto.
«Lui è una leggenda. Spero anch'io di essere in campo a quell'età. Per il momento mi godo il presente».
Sì, però: tra
vent'anni come sarà Jannik Sinner?«Spero dove voglio essere. Però nel tennis e nella vita è quasi impossibile sapere cosa succederà in un tempo così lontano. Meglio pensare alla prossima partita. E la voglio vincere».
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