Wimbledon, Djokovic è tornato

Il serbo distrugge Anderson in finale. La crisi è ufficialmente finita

Wimbledon, Djokovic è tornato

Dal nostro inviato a Wimbledon

Un dito rivolto al cielo, un bacio d'amore all'erba. Dove eravamo rimasti Novak? «Alla finale degli Us Open del 2016, ed è facile parlare adesso: ma dovevo tornare a credere in me stesso. E non è stato facile». L'ultimo punto di Wimbledon è la liberazione da un incubo, Djokovic batte Kevin Anderson 6-2, 6-2, 7-6, ma in realtà dall'altra parte della rete ci sono anche i fantasmi, quelli che spariscono quando il serbo si mette in ginocchio a ringraziare il Dio del tennis per avergli dato un'altra possibilità. Dov'eravamo rimasti, insomma, Novak? E dove siamo giunti adesso che il robot che aveva dominato il circuito senza quasi fare fatica è riapparso uomo, più debole di prima eppure vincente lo stesso. Perché fa strano vedere Novak Djokovic che sbanfa, che suda, che sobbalza e boccheggia per conquistare un punto. E forse la sfida più grande è stata questa, cambiare tutto per essere un altro. Ma lo stesso campione.

Insomma la finale che non c'era, e che in effetti non c'è stata per due set, ha restituito al tennis uno dei suoi eroi: chissà cosa sarebbe successo se Anderson - provato dalle maratone dei giorni passati - avesse azzeccato quei cinque set point che ha avuto a un passo. Ma che importa, perché il tennis non lascia tempo ai rimpianti. Djokovic può abbracciare Stefan, suo figlio («È la prima volta che vinco mentre c'è qualcuno che mi grida papà!, è un'emozione incredibile: lui è stato il miglior sparring partner in queste due settimane»); abbracciare Jelena, la moglie anche lei tornata appassionata al suo fianco; apparire sul balcone dei soci del club più esclusivo di tutti a mandare baci al pubblico. Djokovic ora può raccontare, se non del tutto, quel buco nero in cui era finito il suo talento, per quel gomito - certo - che lo ha reso vulnerabile, però chissà per cos'altro che non ci potrà spiegare mai, anche se nei corridoi del circuito è passato più di uno spiffero: «La verità è che per la prima volta nella mia carriera ho avuto un infortunio serio, e per la prima volta in vita mia non sapevo cosa aspettarmi. Ho avuto fretta a tornare, ho imparato ad avere pazienza. Davvero non c'è posto migliore, e avevo sognato questo momento: qui a Wimbledon, con Stefan».

Cadere e poi risorgere, soffrire e poi godersi l'estasi: in questo quarto Wimbledon, in questo tredicesimo Slam, non c'è più nulla di quel giocatore pallido e sofferente che solo un mese fa era convinto di cancellare la stagione sull'erba.

I dubbi sono spariti, il viaggio nel dolore è finito: «È stato lungo, difficile. Sono passato attraverso frustrazione, disappunto, paura, rabbia. Ma ho capito che devo essere grato per questo, che sono un uomo in fondo» Un uomo nuovo, glielo si legge negli occhi. Gli stessi occhi di Stefan.

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