Belgrado sembra quasi il pretesto per aggrapparsi a qualcosa che abbia le sembianze della serenità. La città serba, pur martoriata in un recente passato dalla sanguinaria guerra dei Balcani, è un'oasi di pace per chi, come il 23enne Mohammad Zaabia, viene dalla peggior interpretazione dell'inferno, quello della Libia rivoluzionaria. Questa sera sfiderà l'Inter, ma il timore reverenziale di fronte alla nobiltà del pallone italico passa in secondo piano quando racconta di essere scampato da una condanna a morte. Mohammad è libico di Tripoli, suo padre Salim è uno dei più importanti esponenti della tribù degli Zuwaya, una di quelle che ha osteggiato Gheddafi quando la Primavera Araba non stava ancora germogliando. Appena a Tripoli è scoppiato il caos il giovane centravanti non ha potuto fare altro che darsi alla fuga. «Giocavo nell'Al Ittihad, una delle tante squadre controllate dalla famiglia Gheddafi. Il presidente era Saadi. Quando hanno scoperto che ero figlio di un attivista di Zuwaya mi sono ritrovato da un giorno all'altro senza più lo straccio di un ingaggio. La storiella dell'omonimia ha retto per poco tempo. Non mi sono mai vergognato di mio padre, ma per giocare a pallone non potevo far altro che rinnegare la parentela».
Cancellato dal campionato locale, bandito dalla nazionale, Mohammad ha vissuto alcuni mesi in clandestinità. «Ho stima e rispetto per mio padre, ma non mi sono mai occupato di politica. Purtroppo è bastato il legame di sangue a trasformarmi in un ricercato». Papà Salim è riuscito a farlo scappare in Kuwait, e quando Gheddafi è stato giustiziato Mohammad ha raggiunto l'Europa superando un provino nel Partizan. Belgrado è la sua patria provvisoria, «la città mi ha adottato, così come i tifosi del Partizan. A Tripoli torno volentieri per giocare con la nazionale. Finalmente posso considerarmi un cittadino libero. È la più importante vittoria della mia vita».
Sulla sfida con l'Inter Mohammad preferisce parlare più dei riflessi sociali che degli aspetti tecnici: «Giocare a San Siro è il sogno di tutti. Figuriamoci per uno che fino a un anno fa non aveva neppure il sentore di una prospettiva di esistenza normale. Ma se mister Vermezovic mi lascerà in panchina non ne farò un dramma».
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