In una settimana fitta di kolossal, con il passaparola Scialla! (Stai sereno) si è piazzato al quinto posto. Lo ha diretto Francesco Bruni, sceneggiatore di mezzo cinema italiano (Virzì, Faenza, Calopresti...) e autore degli adattamenti televisivi di Montalbano, qui all’esordio come regista.
Soddisfatto? Dopo la vittoria di «Controcampo» a Venezia «Scialla!» è partito bene anche in sala.
«Se ripenso alle mie intenzioni, questo successo ha del miracoloso. Volevo fare un grazioso film di nicchia a basso costo. È uscita una commedia che, caso raro, piace alla critica e al pubblico».
Raro è anche che piaccia a «Repubblica» e al «Giornale». È una storia ruffiana?
«Sia i lettori di Repupplica che del Giornale possono vivere un rapporto complesso con gli adolescenti di oggi. Il fatto che sia raccontato in modo non ideologica aiuta. Ruffiano? In una certa misura tutti i film riusciti lo sono. Di solito il termine usato dalla critica è furbetto. Se fosse sinonimo di disonesto non lo accetterei. Se s’intende che è una storia che cattura l’attenzione me lo tengo».
È l’anti «Soliti idioti»?
«Quando Scialla! è stato concepito, non sapevo nemmeno cosa fossero I soliti idioti. Se si vuole per forza trovare una contrapposizione qualcuno potrà dire che è l’anti-Moccia perché racconta adolescenti più problematici».
C’è chi si augura un sèguito.
«Amo fare sempre cose diverse. Se qualcuno vuol provarci cedo i diritti. Potrebbe funzionare anche come serie tv. A teatro chissà... Con gli stessi attori potrei ambientare una pièce nell’appartamento del professore».
Dopo una vita a scrivere per gli altri si è messo in proprio.
«Per la prima volta ho scritto un copione senza che fosse destinato a un regista. A sceneggiatura finita Beppe Caschetto mi ha chiesto “perché non lo giri tu?”».
C’è molto di autobiografico?
«La figura di Bentivoglio è una sorta di me fallito. Anch’io sono un ex professore, seppur di cinema al Centro sperimentale. Il ragazzo è un collage di mio figlio e dei suoi amici che ho sott’occhio».
Come si evince dal titolo c’è uno studio particolare dello slang dei coatti romani...
«Il pericolo era usare le formule desuete e abusate per rappresentare i gggiovani. I quali cambiano gergo rapidamente. Lo stesso “Scialla” tra qualche mese potrebbe sparire».
La battuta migliore è quando Luca dice al padre che «stare appresso alle pischelle è da froci, perché rovina la credibilità di strada».
«Nel mondo hip hop c’è la street cred. Secondo i rapper non puoi fare buona musica se non hai una storia di strada. In Italia molti se la inventano... È un dialogo ripreso pari pari da una chiacchierata con mio figlio. Che mi ha anche fatto conoscere Amir (autore della colonna sonora ndr)».
Funziona anche l’italiano post-dialettale del prof padovano.
«È stato Bentivoglio a convincermi che veneto sarebbe stato più comico. Abbiamo in comune gli amici del clan cinematografico padovano: Contarello, Mazzacurati, Monteleone, Citran, gente linguisticamente conservatrice».
La Bobulova è una pornostar intellettuale e Marchioni un boss poeta. Nella malavita vede ambizioni colte?
«Lei è un’ex studentessa che diventa pornostar dopo esser rimasta incinta troppo presto e che riprende le sue passioni giovanili per la musica e la poesia. Nel personaggio di Marchioni c’è una forzatura comica che però corrisponde a certi spacciatori che conosco, che scrivono e leggono Pasolini».
Per il mondo della malavita i suoi ragazzi nutrono grande ammirazione.
«Vedono genitori pieni di contraddizioni mentre il mondo del crimine lancia messaggi diretti. “Ti piacciono i delinquenti”, dice il padre a Luca. “È gente che si fa rispettare”. “Che si fa temere”. “Che non si fa troppe pippe”. “Che però finisce male”. “Ma intanto ha vissuto alla grande”».
Sui titoli di coda il boss esorta il professore ad aggiungere violenza nella sua biografia per compiacere il produttore cinematografico.
«Non è un invito a non produrre romanzi criminali o vallanzaschi. Ma a raccontarli senza puntare sul glamour. Credo che le persone reali abbiano meno fascino di come li propone il cinema. Ho amato Gomorra perché ha descritto il mondo criminale com’è, laido e rivoltante».
È un film che nasconde bene le sue ispirazioni cinematografiche e letterarie.
«Mi piace Bill Murray di Lost in Translation e di Broken flowers di Jarmusch. È un attore lento come Bentivoglio. Dal punto di vista sociologico il mio riferimento è Il contagio di Walter Siti: la cafonaggine delle borgate conquista il centro delle città e non il contrario».
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