Stalin si è convertito in piazza San Pietro

Torna un misterioso libro di fantapolitica edito nel 1950. È firmato Martucci e Ranieri, ma dietro c’è il geniale Leo: nella Roma di Papa Pacelli l'"Indomabile" diventa un mite vecchietto

Stalin si è convertito in piazza San Pietro

«Addavenì Baffone...». Lo ricordate, il motto dei «nostalgici di ciò che non fu», per chiamarli con un giro di parole? Dei non ancora «duri e puri», ma già delusi da guerra e, soprattutto, dopoguerra? Ebbene, Baffone, alla fine, venne.

No, non ci siamo persi un pezzo di storia del Novecento. No, nessun complotto demoplutocratico riveduto e corretto portò i cavalli dell’Armata Rossa ad abbeverarsi in San Pietro. Ci siamo persi, invece, se siamo nati dopo il 1950, il più gustoso romanzo italiano di fantapolitica. Ma eccolo che finalmente torna, dopo l’edizione Longanesi di allora, sebbene... sotto mentite spoglie. Si nasconde, infatti, come un agente segreto, nella bella antologia Racconti fantastici del ’900 (Mondadori, pagg. 869, euro 20, a cura di Giuseppe Lippi), fra un Chesterton e un Borges, un Kafka e un Calvino. Il fantastico, del resto, è un «genere»... sui generis, spesso e volentieri colonizza (stavamo per dire «invade» con piglio staliniano) territori altrui.

In questo caso, il terreno di conquista è classicamente insospettabile: la Roma festosa, pacifica e «santa» del Giubileo 1950. Per la precisione, il settembre di quell’anno. «Che l’Anno Santo sia per tutti un anno di purificazione e di santificazione, di vita interiore e di riparazione, l’anno del gran ritorno e del gran perdono», aveva ammonito Pio XII. «Riparazione» e «perdono» suonavano come parole magiche anche alle orecchie degli agnostici e forse persino degli atei venuti da molto lontano... E da lontanissimo arriva il protagonista di Lo strano settembre 1950, romanzo breve che porta tre firme: due, quelle di Donato Martucci e Uguccione Ranieri, sono ufficiali, l’altra, di Leo Longanesi, è ufficiosa. Il gustoso racconto, spiega Lippi nell’Introduzione, «è circondato da un piccolo mistero autoriale: a detta di alcuni bibliofili, infatti, la copia regalata a Giuseppe Marotta, e recante la dedica autografa di Longanesi, conterrebbe la seguente specificazione, di pugno del grande autore-editore: “Martucci e Ranieri sono io... Ma non dirlo a nessuno”».
Martucci e Ranieri, chi erano costoro? Definiti da Giovanni Ansaldo nel suo diario «due giovanotti del ministero degli Esteri», avevano già pubblicato due anni prima, proprio grazie al mitico Leo, un libello in vista delle elezioni del ’48 dal titolo Non votò la famiglia De Paolis, la tragicomica (più tragica che comica) vicenda del professor Gualtiero De Paolis che, non recandosi alle urne causa sfiducia nella classe politica, si rende involontario complice della vittoria del Fronte Popolare e del conseguente regime comunista. La coppia Martucci-Ranieri, anzi, il trio..., se ne uscì poi, nel ’53, a completare un trittico fantapolitico che è l’efficacissimo e fedelissimo ritratto di un’Italia zoppicante e ondivaga, con Non tornò Umberto di Savoia, dove le speranze dei monarchici, discioltosi come neve al sole il tanto vituperato (o agognato) «premio di maggioranza», s’infrangono, ancora una volta, contro la Repubblica Popolare Progressiva Italiana...

Ma torniamo a Baffone, cioè al settembre del ’50. Per la precisione al 17 del mese, la «Giornata dei bambini», del Sinite Parvulos. E diciamo subito che il nostro Baffone ha... perso i baffi. Il vecchietto bloccato dalle guardie vaticane poiché, durante un discorso del Papa, dà in escandescenze, ha il volto completamente rasato e, per giunta, un paio di occhialini. «Hanno acchiappato nu forestiero», annuncia per telefono Vincenzo Fusco, scritturale avventizio del commissariato di piazza Cavour, a George Bria, brillante corrispondente statunitense dell’Associated Press. In stato di fermo, l’individuo sospetto declina generalità troppo esotiche per accendere la scintilla nella mente dei funzionari assopiti dal tran tran giubilare: Vissarionvic Zugashvili. «Ha fatto chiasso alla benedizione. Agitava il pugno chiuso», spiega il dottor De Paolis al cronista accorso sul posto.

Immediatamente, la macchina giornalistico-politica si mette in moto, sfrecciando per le vie affollate di pellegrini, in una Roma un po’ felliniana, caciarona e incantata. Le quattro (o sei) mani degli autori sono abilissime nel disegnare, con uno stile a mezza strada fra Achille Campanile e Giovannino Guareschi, il panorama degli italici tentennamenti che percorrono, con sincero spirito democratico e pilatesco, l’intero arco costituzionale dei partiti e la stampa tutta, alla quale non par vero di poter attingere a piene mani dalla cornucopia della notizia bomba. Ecco il grigio aplomb di De Gasperi il quale, incalzato da Scelba, verga imperterrito lettere su lettere nel pieno di un rovente consiglio dei ministri convocato d’urgenza. Ecco l’irruenza di Giancarlo Pajetta che caldeggia la liberazione, ovviamente tramite commando armato, del compagno finito ostaggio degli imperialisti. Ecco il fatalismo partenopeo del super cronista Cesare Zappulli, buttato giù dal letto in piena notte per far da interprete al più o meno sedicente Stalin. Ecco i tormenti di Bria (anch’egli è un personaggio realmente esistito - seguì, fra l’altro, il processo di Norimberga), in bilico fra la propria carriera (non si tratterà di una colossale bufala? è il dubbio che lo assale) e il futuro della moglie e della loro bimba. Su tutto, par quasi di udire il basso continuo delle telescriventi e delle rotative che diffondono in tutto il mondo, dalla Città Eterna, dispacci e titoli strillati.

Tutti, come laboriose formiche, portano una briciola che alimenta la commedia, sia essa figlia di un equivoco o di uno scherzo della Storia: i comunisti indicono istericamente uno sciopero generale; i democristiani si nascondono dietro un dito; i missini rimpiangono il bel tempo andato; i giornalisti alzano i corpi delle testate e il tono della voce; la diplomazia sovietica, non ancora imboccata dalla Casa

Madre, se la fa sotto paventando la conversione dell’«Indomabile». Ma possibile che quell’ometto sorridente e serafico sia il terrore dell’Occidente? Bella domanda. La giriamo al lettore. Comunque risponda, avrà ragione lui.

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