Cultura e Spettacoli

Per la stampa araba la libertà è un miraggio

Intervista con Zyed Krichen, direttore del principale magazine tunisino, specialista di politica e cultura islamica e autore di saggi sull’Islam

da Lugano
Qual è il ruolo dei media tra Islam e Occidente? Lo scontro di civiltà è davvero inevitabile o si tratta di un grande equivoco alimentato da un difetto di comunicazione? E che dire della disinformazione, delle manipolazioni o delle ingerenze da parte del potere? E dei media (tutti) in rapporto al terrorismo? Di questo si parla del workshop in corso a Lugano cui partecipano i massimi esperti venuti da diversi Paesi. Abbiamo incontrato Zyed Krichen, direttore del giornale tunisino indipendente Réalités, nonché filosofo, specialista di politica e cultura islamica e autore di diversi studi su Islam e islamismo.
Negli ultimi anni i media panarabi sono in aumento. Attualmente ci sono circa 200 canali televisivi. Come sono cambiati nel tempo?
«A fine Ottocento la carta stampata nei Paesi arabi godeva della massima libertà. In seguito, con l’indipendenza, c’è stato un giro di vite, tranne che in Libano. Negli anni Sessanta, con l’arrivo della televisione, è partita un’accelerazione dei mezzi di propaganda che non ha certo incoraggiato la democrazia. Nel 2000 il regime ha cominciato a perdere potere. Era il periodo in cui cambiavano le alleanze geopolitiche e la società, mentre le monarchie dell’Arabia Saudita diventavano sempre più forti. Tutto ciò coincideva con il progresso tecnologico che stava rivoluzionando il mondo. I Paesi arabi avevano i loro organi d’informazione locali, ma esistevano anche i media transnazionali. Pensiamo alla MBC a Londra, il primo canale generalista per il mondo arabo fondato nel 1993 dai sauditi. L’anno dopo nacque l’ART (Arab Radio Television) a Roma e nel 1995 la BBC araba a Londra».
Chi erano i giornalisti di queste emittenti?
«Libanesi, egiziani, maghrebini. La formula era la seguente: luogo di emissione in Europa; capitale saudita; giornalisti dei rispettivi Paesi, pubblico di 300 milioni di arabi; linea editoriale “gentile” con tutti. Il giorno in cui la BBC fece un servizio non simpatizzante con i Paesi arabi, furono tagliati i finanziamenti. La tivù durò otto mesi».
A quel punto nacque Al Jazeera...
«Era il 1996, la redazione era composta dai giornalisti della BBC, era una tivù libera, che aveva intercettato la frustrazione della gente, ma soprattutto critica verso i Paesi arabi. All’inizio erano stati invitati diversi politici israeliani, fatto che suscitò molte polemiche. Si parlò di una manovra americana per legittimare lo Stato di Israele e dare visibilità agli Emirati».
E poi le cose cambiarono.
«La seconda Intifada ha ribaltato tutto. Al Jazeera ha colto l’occasione per diventare un canale pro-palestinesi, anti-israeliano, anti-americano e anti-occidentale. Gli occidentali erano diventati coloro che sostenevano Israele per frammentare il mondo arabo. E poi è arrivato l’11 settembre e tutto si è amplificato».
Qual è oggi la linea di Al Jazeera?
«Ha una posizione neutra nei confronti dello jihadismo, dunque è critica verso l’Occidente. Un altro esempio è Al Arabiya, una tivù privata finanziata dai sauditi con una posizione critica verso gli jihadisti e che cerca, pur essendo conservatrice, di mantenere un tono ragionevole con l’Occidente. Entrambe hanno contribuito a cambiare l’atmosfera nei media arabi locali: c’è più libertà da un lato ma anche una realtà conflittuale soprattutto in quelli più retrogradi».
Che cosa dire allora di Internet o delle trasmissioni tivù spinte?
«Sì ci sono. Ma ci sono anche canali privati come Rotana che trasmette videoclip con ragazze sexy e ammiccanti seguitissimi dai giovani. Anche se rispetto alla generazione dei loro padri sono meno tolleranti e più sensibili nei confronti della religione».
Le autorità come reagiscono?
«Tutto cambia, ma i regimi arabi sono molto forti e capaci di resistere a queste pressioni. Molto più dei sovietici ai loro tempi. Grazie anche alla debolezza della società civile».
Come vede il futuro dei media arabi?
«Guadagneranno in termini di libertà di espressione ma ci sarà il rischio che perdano la coscienza critica».
E come giudicano secondo lei gli occidentali una tivù come Al Jazeera?
«Per loro è un’immagine, ma non la seguono, tranne gli specialisti, gli immigrati o chi capisce l’arabo. Viene comunque ripresa da tutte le televisioni del mondo ogni volta che fa degli scoop».
Anche a lei dà fastidio quando si parla di Islam moderato?
«È una strategia di linguaggio. Sottolineando la parola “moderato” si fa passare il messaggio che sottintende ogni volta l’esistenza di un Islam cattivo e pericoloso. In questo modo, invece di avvicinare le culture, si alimenta lo scontro.

Perché non si dice mai “cristiani moderati”?».

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