Lo Stato risarcisce i boss per colpa della toga-lumaca

BEFFA Il magistrato è stato cacciato dall’ordine giudiziario per negligenza. Ma ora a pagare sarà il ministero di Giustizia

Il giudice sbaglia, e lo Stato, anzi il contribuente, paga. Paga per risarcire i danni a quegli stessi boss che persegue. Paradosso? No, solo le conseguenze, in terra di Sicilia, della lentezza di un celebre giudice-lumaca, Edi Pinatto. Il magistrato, divenuto famoso perché impiegò otto anni per scrivere una sentenza, è stato cacciato dall’ordine giudiziario due anni fa. Ma le ricadute di quella negligenza lo Stato le sta pagando oggi. Infatti darà circa 24mila euro ai familiari e a un fedelissimo del boss Giuseppe «Piddu» Madonia, tutti condannati in via definitiva per reati di mafia. Quel processo, durato otto anni e dieci mesi solo in primo grado, è stato lungo, irragionevolmente lungo. Di qui l’indennizzo, più che legittimo, alle “vittime”, i familiari del capomafia condannati. Un indennizzo però che per lo Stato, che bracca Madonia e gli altri boss anche attraverso il sequestro dei beni, ha il sapore di una beffa.
Dura lex sed lex. Proprio a norma di legge i giudici di Catania hanno accolto il ricorso presentato dagli avvocati Antonio Impellizzeri e Flavio Sinatra a favore dei loro assistiti: la moglie di Madonia, Giovanna Santoro; la sorella del boss, Maria Stella; il cognato del capomafia, Giuseppe Lombardo; e il boss di Mazzarino Salvatore Siciliano, tutti quanti condannati, in via definitiva, in quel processo-fiume, cominciato il 24 maggio del 1999 e finito, di fatto, il 18 marzo del 2008, quando Pinatto finalmente depositò quelle motivazioni. Il risarcimento, che va liquidato immediatamente, ammonta a poco più di cinquemila euro per ciascun ricorrente (5.085 euro per l’esattezza), cui vanno aggiunti circa 700 euro di spese legali, tutte a carico del ministero di Giustizia. I giudici della prima sezione civile della Corte d’Appello di Catania hanno considerato soggetti al risarcimento cinque anni e dieci mesi, il risultato della sottrazione tra la durata reale del dibattimento dall’inizio al deposito della sentenza, otto anni e dieci mesi, e la ragionevole durata presunta, stabilita in tre anni. In totale, quasi 24mila euro, circa seimila euro per ciascun imputato. E probabilmente non finisce qui. Sì, perché quello della prima sezione civile della Corte d’Appello di Catania è solo il pronunciamento su un primo blocco di ricorsi. Altri sono pendenti, ed è facile che seguano la stessa sorte di questo dei parenti di «Piddu» Madonia, che fa in qualche modo da apripista.
Un’inezia, per la famiglia del capomafia nisseno, questo risarcimento. A Madonia sono stati sequestrati e anche confiscati, nel tempo, beni per centinaia di migliaia di euro. Nel 2002, quando tra Italia e Romania furono messi i sigilli all’impero del boss, il suo patrimonio era stimato in oltre un milione e mezzo di euro. Del resto, appena qualche giorno fa, il resoconto semestrale della Dia sugli aspetti più rilevanti relativi al fenomeno mafioso nel secondo semestre del 2009 ha annotato che, in provincia di Caltanissetta, Cosa nostra è «sempre riconducibile a Madonia, che continua a gestire i propri illeciti interessi attraverso il proprio circuito parentale e quello delle amicizie più fidate». Quello, appunto, cui adesso lo Stato è obbligato a dare l’indennizzo.
Il sapore della beffa è ancora più marcato se si considera che gli imputati, sempre per la lentezza del giudice-lumaca, hanno avuto anche i vantaggi della eccessiva lunghezza del processo, le scarcerazioni per decorrenza dei termini. E fu proprio il ritorno in libertà dei boss a fare esplodere il caso Pinatto. Il giudice, alla fine degli anni ’90 applicato al tribunale di Gela, avrebbe dovuto depositare le motivazioni entro i 90 giorni successivi alla sentenza, emessa il 22 maggio del 2000. E invece, complice nel frattempo anche il trasferimento a Milano, per anni non ha fatto nulla. La sentenza è stata depositata solo il 18 marzo del 2008.

La vicenda è costata a Pinatto una condanna a otto mesi in sede penale per omissione d’atti d’ufficio e la rimozione dall’ordine giudiziario per «grave negligenza non scusabile». Ora che i suoi colleghi giudici stanno avviando i risarcimenti, è probabile che sia anche chiamato a un indennizzo economico. Il ministero, tramite la Corte dei Conti, può infatti rivalersi su di lui.

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