Stoker, i morsi della paura

Il «gotico», diversamente da eroi ed eroine che lo popolano, non muore mai. Anche perché facilmente manipolabile con ogni mezzo, dai fumetti trash al cinema (di serie A, B o C... ), dai video musicali tipo Marilyn Manson alla giungla internettiana, dalle arti grafiche alla moda (pensiamo all’onda punk che prima o poi, stiamone certi, tornerà ad abbattersi sui nostri lidi). Ma il gotico vero, quello dei padri (e delle madri) fondatori, da Walpole a Lewis, dalle signore Radcliffe e Shelley a Hoffmann, da Poe a Polidori, sta a quello dozzinale come L’educazione sentimentale di Flaubert sta alle spazzolate di Melissa P.
Fra i maestri del genere, Abraham «Bram» Stoker, è quello cui dobbiamo la creatura gotica per antonomasia: il conte Dracula. Stoker fu appassionato studioso di storia e letteratura, ma anche di fisica e si laureò in matematica al Trinity college di Dublino. Un positivista, quindi, ma con le antenne ben ritte a captare i segnali provenienti dalla zona oscura dell’universo umano. Così, quando nel 1890 conobbe il professore ungherese Arminius Vambéry che gli narrò la leggenda del principe romeno Vlad Tepes «l’Impalatore», le sue antenne presero a vibrare. Si fermarono sette anni dopo, quando Dracula, sotto forma di romanzo epistolare, vide la luce senza per questo rifugiarsi nella sua tomba. Anzi, traslocato dall’Est superstizioso e credulone all’Ovest dell’Inghilterra pragmatica e industriale, il conte assetato di sangue conobbe una seconda giovinezza.
Se Dracula si staglia, avvolto dal nero mantello, sull’opera stokeriana, è nei racconti brevi che lo scrittore irlandese nato a Clontarf nel 1847 e morto a Londra nel 1912 ci offre in maniera più efficace e perturbante la cifra del gotico. Lande desolate e mari in tempesta, antiche dimore di famiglie decadute, sogni premonitori, fantasmi, pallide fanciulle: leggendo La catena del destino e altri racconti inediti (Costa&Nolan, pagg. 142, euro 7,80) avvertiamo la sensazione di trovarci nel centro diremmo quasi geometrico delle atmosfere che abbiamo assaggiato in altri tempi e luoghi: le pellicole grandguignolesche della Hammer Film, o quelle del primo Dario Argento, oppure il senso di trepida attesa che sapeva infondere mastro Hitchcock.

Stoker, per così dire, scrive «in soggettiva». E la sua camera magica contiene il brivido del vuoto, dell’inquietudine, dell’irrazionale. Perché da buon matematico sa che i numeri sono soltanto ipotesi, mentre la paura è la più concreta delle realtà.

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